Proseguono lavori al Cimitero Hammagi

di Antonella Tarquini

Del 2 novembre 2006 da ANSA

Il cimitero italiano di Tripoli in cui riposano i resti di almeno 8.600 connazionali non è più il «cimitero della vergogna», «il cimitero dimenticato», ma sta ritrovando poco a poco una dignità grazie al progetto di risanamento avviato in luglio. Lo scenario nel quale l'arcivescovo di Tripoli, Mons. Martinelli, ha celebrato oggi la messa in occasione del 2 novembre, sull'altare che sovrasta la cripta dove era sepolto Italo Balbo, è ben diverso da quello dell'anno scorso, quando ancora il cimitero di Hammangi era una vera e propria discarica a cielo aperto, profanato da mani ignote che hanno divelto le croci, spezzato le lapidi, frugato nelle tombe in cerca di qualche catenina d'oro, o forse solo per il gusto di profanare. Uno spettacolo desolante, drammatico, che non dimenticano quei primi esuli tra i 20mila italiani di Libia cacciati nel 1970 dal colonnello Gheddafi, che nel novembre 2004 ottennero l'autorizzazione a tornare a Tripoli e si trovarono davanti ad un vero scempio. «Spero che presto non si parli piùdi Hammangi come del cimitero della vergogna», disse allora Giovanna Ortu, la presidente dell'associazione italiani rimpatriati dalla Libia (Airl), e oggi l'auspicio si sta avverando: il muro di cinta che delimita la nuova area cimiteriale di un ettaro circa èstato costruito (a cura del Consolato generale d'Italia), e circa 2.400 salme sono state finora riesumate e temporaneamente deposte nel sottosuolo del sacrario militare che per anni ha accolto le spoglie di oltre 11mila soldati caduti durante la guerra coloniale. Dopo il restauro previsto nei prossimi mesi di tutto il complesso progettato dall'architetto Paolo Caccia Dominioni, il sacrario saràla definitiva dimora degli italiani di Libia, che Mons. Martinelli ha ricordato durante la messa cui ha assistito l'ambasciatore d'Italia Francesco Trupiano, il console generale Carlo Colombo e la comunità italiana. 'Angelo custodè degli italiani di Libia sepolti ad Hammangi è Bruno Dalmasso, che da 18 anni veglia sul cimitero anche se neppure lui ha potuto evitare lo scempio, le scorribande notturne di cani randagi, quelle di ragazzotti in cerca di emozioni forti. È lui che sovrintende gli scavi per riesumare le salme, che le identifica una ad una, aiutato dalla moglie etiope, perchè, dice all'Ansa, «sono miei fratelli, anche io sono un esule, dell'Eritrea, un italiano d'Africa, e ho vissuto le stesse disavventure». Un lavoro da certosino, perchèi vandali hanno divelto le pietre su cui erano segnati i numeri delle sepolture corrispondenti ai registri cimiteriali ritrovati peraltro mangiati dai topi e semidistrutti dalla pioggia. Ma Bruno Dalmasso non si è mai perso d'animo e grazie alla sua costanza e a quella del consolato d'Italia quei morti hanno ormai un nome, almeno il 95%. Ci sono più di 600 donne morte giovanissime di parto, e un migliaio di bambini morti nel primo anno di età, ci spiega mostrandoci le colombaie che saranno distrutte dopo la riesumazione di tutte le salme (4.000 nei loculi delle colombaie, 4.500 a terra) perchè tutta l'area circostante al nuovo perimetro, circa 12 ettari, verràrestituita al comune di Tripoli che ne faràuna zona verde. Grazie ad un inceneritore fornito dall'Img, (international management group), l'organismo internazionale che sta realizzando l'intervento di riqualificazione ambientale dell'area cimiteriale finanziato dal ministero degli esteri (circa quattro milioni di euro), verrà prima bonificata tutta la zona, ci spiega Luigi Sillano, italiano di Libia che per conto dell'Airl segue i lavori, e fa parte della commissione mista italo-libica creata proprio per la riabilitazione di Hammangi, dove dal 1924 al 1970 nel cimitero vennero tumulate oltre 15mila salme. Al momento drammatico dell'espulsione molti connazionali riuscirono a portare in Italia i resti dei loro cari, di cui non c'è però memoria perchè tutto avvenne in fretta e furia. Oggi, dice Dalmasso, sono una quarantina le famiglie che hanno chiesto il rimpatrio, e ricevuto l'autorizzazione, ma le pratiche si sono arenata perchè il governo libico richiede i certificati di morte originali. Quelli che forse nella fuga precipitosa da Tripoli, nel 1970, ben pochi hanno pensato di portare con sè.

 

 

 

 

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