Libia: perché Gheddafi ci accusa

di Gigi Speroni

Del 23 marzo 2006 da Gente

Dov'è finito Gheddafì? Per giorni ha occupato le prime pagine dei gior¬nali, poi, di colpo, è sparito persino dalle brevi di cronaca. «Chi l'ha vi¬sto?», potrebbe chiedersi Federica Sciarelli. Viviamo in un convulso clima elet¬torale, dove le notizie esplodono come un fuoco d'artificio e vengono presto di¬menticate, Tanto rumore per nulla anche in questo caso? Non proprio: le dichiara¬zioni di Gheddafì hanno alimentato un incendio che covava sotto la cenere, inevitabilmente destinato a riattizzarsi, se il dittatore libico deciderà di farlo nuova¬mente divampare, E non sarebbe la pri¬ma volta. Quindi, vale la pena riepiloga¬re i fatti, a futura memoria. Tutto è cominciato in febbraio, per l'esattezza vener¬dì 17, quando centinaia di libici hanno as¬salito a Bengasi la sede del consolato italia¬no e la polizia ha sparato, uccidendo 12 di¬mostranti. Il ministro Roberto Calderoli si era sciaguratamente esibito in televisione con una maglietta che riproduceva quelle vignette su Maometto, pubblicate da un giornale danese, che avevano provocato la violenta rivolta del mondo islamico. £ fu facile trarre le conseguenze del caso. Le dimissioni di Calderoli parevano averlo chiuso, ma il 2 marzo, celebrando il 29° anniversario del colpo di Stato che l'a¬veva portato al potere, Muhammar Ghed¬dafì lo ha riaperto: «II popolo libico», ha detto, «grida vendetta e bisogna approfitta¬re dell'occasione per risolvere il problema, affinché non si ripeta la tragedia del consolato». Il "problema" sono le colpe dell'Ita¬lia coloniale, che aveva occupato la Libia dal 1911 al 1943, quando 100 mila libici vennero uccisi in guerra e durante i lun¬ghi anni della successiva repressione "pacifìcatrice". Per risolverlo, Gheddafì chie¬de «un grande gesto, non solo simbolico, che ponga una pietra sul passato». In verità, un gesto il governo italiano l'aveva già fatto nel 1956, impegnandosi con re Idris I a versare un indennizzo di 5 miliardi di lire, ma Gheddafì, soppian¬tato il sovrano Senusso, stracciò l'accor¬do e, nel 1970» scacciò i 20 mila italiani che vivevano e lavoravano in Libia, re¬quisendo le case, i terreni e ogni loro proprietà, come acconto per il risarci¬mento dovuto al suo popolo. Nel con¬tempo, istituì il "giorno della vendetta" per rivendicare, il 7 ottobre di ogni anno, "i diritti negati alle vittime del coloniali¬smo italiano". Gheddafì rivendicava soprattutto quando aveva bisogno di rinsaldare il suo potere, sbandierando il nazionali¬smo, e noi traccheggiavamo ricorrendo all'abilità diplomatica di Giulio Andreotti. L'ultimo capitolo di questa storia risale al 2004, quando Berlusconi si recò a Tri¬poli, mettendo sul piatto l'offerta di un ospedale da 63 milioni di euro, ma Gheddafì lo gelò con la pretesa di un'autostrada dalla Tunisia fino all'Egitto: 1.700 chilometri per un costo di almeno 3 miliardi. Questa è l’ultima richiesta del dittatore rimasta sul tavolo a pochi giorni dalle elezioni. Per il governo che verrà è una patata che scotta, e molto, visti gli interessi che abbiamo con la Libia: il gasdot¬to, i contratti dell’Eni, il piano per impedire che dalla "quarta sponda" possano partire le barche cariche di immigrati dirette in Italia. Gheddafì chiede «un grande gesto» per porre «una pietra sul passato». Un lontano passato che abbraccia più di trent'anni: l'arco di tempo che va dall'Italia liberale di Giovanni Giolitti a quella fascista di Benito Mussolini. Sempre sotto il lungo regno di Vittorio Emanuele III. Andiamo, dunque, ai ricordi. Incomin¬ciando da una data precisa: il 29 settembre 1911, quando l'Italia dichiara guerra alla Turchia. Le grandi potenze europee si stanno spartendo l'Africa e anche noi vo¬gliamo partecipare al banchetto. La Libia appare come una conquista facile: la Cire¬naica è governata dalla Confraternita dei Senussi, una tribù; la Tripolitania fa parte dell'impero ottomano, che è in disfaci¬mento. Per Giolitti è il momento giusto per incamerare "la vasta regione bagnata dal nostro mare", ridotta in gran parte a deserto "per l'inerzia di popolazioni no¬bili e neghittose", che appare come "lo sbocco naturale delle nostre aspirazioni". Non soltanto dei nazionalisti, dei mode¬rati, dei banchieri, dei cattolici, ma anche di vasti settori della sinistra: Arturo Labriola considera la Tripolitania "una co¬lonia dei proletariato italiano". I giornali favoleggiano dì "enormi ricchezze natu¬rali che aspettano solo di essere sfrutta¬te", di "sterminate e fertilissime regioni ove potranno vantaggiosamente emigra¬re migliaia di contadini italiani affamati di terre". Sotto quelle terre c'è il petrolio, ma verrà scoperto solo nel 1959. Gli unici a opporsi alla guerra sono i socialisti di Filippo Turati e la Camera Generale del Lavoro, che proclama uno sciopero di 24 ore. Miseramente fallito. Migliaia di contadini meridionali preferi¬scono assediare le questure per chiedere il passaporto nella speranza di "poter an¬dare nella quarta sponda a far gli agricol¬tori", e tra gli operai scendono in piazza solo quelli di Parma e di Forlì, dove due "pericolosi agitatori" vengono arrestati e condannati per direttissima a cinque me¬si di reclusione. Si chiamano Pietro Nenni e Benito Mussolini. I borghesi, dal canto loro, si spellano le mani per Gea della Garisenda, una romagnola alta e formosa, che canta: Tripoli, bel suoi d'a¬more, ti giunga dolce questa mia canzon... Tripoli, terra incantata, sarai ita¬liana al rombo del cannon. Il 5 ottobre 1911, "A Tripoli sventola il tricolore". Lo annuncia il quotidiano La Stampa:”I1 grande voto della nazione è compiuto, il cerchio di ferro è rotto: il Mediterraneo non diverrà più un lago stra¬niero. L'Italia si è assicurata l'unico lembo rimasto libero dalle cupidigie altrui". La conquista ha eccitato Gabriele D'An¬nunzio (era scontato), ma anche Giovanni Pascoli, il delicato poeta della natura e della pace: La grande proletaria s'è mossa. Là i nostri lavoratori saranno agricoltori sul terreno della Patria. Dal canto suo, il Vate declama: S'ode nel cielo un sibilo di tromba. Passa nel cielo un pallido avvoltoio. Giulio Gavoni porta la sua bomba. L’ingegner Gavotti, sottotenente di complemento, sorvolando l'oasi di Tagiura ha sganciato sui turchi quattro ordi¬gni poco più grandi di un'arancia "che hanno terrorizzato il nemi¬co". È il primo bombardamento aereo del mondo. Per l'occasione debuttarono anche la radiografia senza fili nei collegamenti tra i reparti e le strisce ferrate da avvolgere attor¬no alle ruote per non impantanarsi nel de¬serto. Li chiamarono i "cingoli Bonagente", dal nome del capitano che li aveva inventa¬ti, e li ritroveremo tre anni dopo sui carri armati della Prima guerra mondiale. La Libia diventerà italiana con la pace di Losanna, firmata il 18 ottobre 1912, ma i senussidi islamici in Cirenaica e i beduini in Tripolitania continueranno a combatte¬re una lunga guerriglia fatta di attentati, scaramucce, impiccagioni dei ribelli. Rac¬contano i cantastorie: In nome di Maometto e del Corano, il turco spinge l'arabo guerrier ad affrontare il milite italiano, chiamandolo infedel cane stranier! Su quegli anni sentiamo un testimo¬ne. Non un generale o un politico, ma un romanziere ai tempi molto noto. Louis Marie Julien Viaud, con lo pseudonimo di Pierre Loti (dal nome di un piccolo fio¬re indiano), scrisse, nel 1913, Ma Turquie agonisante: "Non è soltanto contro gli italiani che si eleva la mia protesta, ma contro tutti noi, cosiddetti cristiani d'Europa. Noi che sulle labbra abbiamo sempre parole di fraternità, ogni anno inventiamo esplosi-vi sempre più infernali, mettia¬mo a fuoco e sangue e rapinia¬mo il vecchio mondo africano. Trattiamo come animali gli uo¬mini di pelle bruciata". In Libia, spenti gli ultimi focolai di rivolta con una dura repressione del maresciallo Rodolfo Graziani, dal 1933 il governo attuò un vasto program¬ma di colonizzazione creando fabbriche, una Manifattura tabacchi a Tripoli, opere idrauliche e di rimboschimento, 850 azien¬de agricole. E costruì una rete stradale di 3.545 chilometri. Su cui, dal 1940, comin¬ciarono a passare cannoni e carri armati: prima avanti, diretti verso l'Egitto, poi in¬dietro, per riparare in Tunisia, E, con la guerra, l'Italia perse anche la Libia.

 

 

 

 

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