Perché il colonnello invia la figlia, con dote, a difendere il rais

Del 8 luglio 2004 da Il Foglio

Roma. La decisione di Aisha Gheddafi, figlia maggiore del leader libico, di entrare a far parte del collegio di difesa di Saddam Hussein (che comprende già 20 legali) non somiglia ai gossip che circondano le imprese calcistiche perugine di suo fratello. Non è una notizia stravagante. Non è la scelta personale di un avvocato che si mette in mostra difendendo – ed è una donna – il primo dittatore arabo processato. E' un passo importante, che coinvolge il regime libico, la riprova della permanente propensione del colonnello a praticare una politica corsara. La notizia giunge poche settimane dopo che il reggente dell'Arabia Saudita, principe Abdullah, ha denunciato ai media occidentali – e alle cancellerie, Farnesina compresa – le trame di Gheddafi per attentare alla propria vita. Esattamente un anno dopo che Gheddafi in persona ha insolentito violentemente, in un vertice della Lega araba, il reggente saudita Abdullah, rivolgendogli le stesse identiche accuse di servilismo nei confronti degli Stati Uniti e di violazione dei precetti dell'islam che per 14 anni Saddam ha rinfacciato ai sauditi, per avere permesso che truppe cristiane calpestassero il sacro suolo della Mecca. Le stesse identiche accuse sono alla base della proclamazione del “jihad contro i crociati e gli ebrei” lanciato da Osama bin Laden nel 1996. C'è sempre stato uno stretto legame tra la Libia di Gheddafi e l'Iraq di Saddam, sia che si trattasse di capeggiare il “fronte del rifiuto” che nel 1979 rigettò gli accordi di Camp David tra Menachem Beghin e Anwar el Sadat, sia che si trattasse di costruire le “sindycation” terroristiche che hanno insanguinato per 30 anni l'Europa; sia che si trattasse di lavorarenel torbido (anche sulla scena palestinese) con personaggi loschi come Abu Nidal, Wadi Haddad e il venezuelano Carlos. Oggi la figlia del dittatore libico assume la difesa legale di Saddam perché il colonnello vuole lanciare un messaggio forte al mondo arabo: la politica panaraba, la leadership dei musulmani che intendono ancora e sempre distruggere Israele e non vogliono scendere a patti con gli Stati Uniti, hanno ormai un solo interprete: Muhammar al Gheddafi. La stessa tattica processuale preannunciata dal collegio di difesa di Saddam è su questa linea, tutta politica: impedire che il processo si svolga, paralizzarlo, per far sì che i giudici iracheni, “servi degli Stati Uniti”, siano sostituiti da magistrati indicati dall'Onu. Il francese Emmanuel Ludot, uno dei legali di Saddam, nel confermare la notizia dell'impegno legale di Aisha Gheddafi, già anticipato dall'avvocato giordano Mohammed Rashdan, ha aggiunto che il colonnello “ha voluto supportarci con aiuti finanziari e logistici. E' denaro libico, è il benvenuto. E' una donazione chiara e trasparente”. Morto Nasser, ucciso Sadat, incarcerato Saddam, emarginato Arafat, sulla piazza araba non c'è più alcun leader che sappia essere protagonista del nazionalismo roboante e antiebraico della lunga, sanguinosa e sterile stagione del panarabismo. Gheddafi ha dovuto scegliere di abbandonare la via delle armi di distruzione di massa, forse ha scelto di non ompromettersi più col terrorismo (ma Abdullah lo smentisce) e ha fatto uscire la Libia dalla lista dei rogue States. Ma la sua strategia non cambia: rifiuta di adeguarsi alla svolta riformistica che la caduta del Baath iracheno impone ai paesi arabi e intende agitare ancora e per sempre, anche nell'aula del tribunale del processo a Saddam, il suo “Libretto verde”, pasticciata sintesi di jihad fondamentalista e miraggi panarabi

 

 

 

 

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