Miliardi a Gheddafi? Sì, ma poi basta con le prepotenze

di Livio Caputo

Del 27 luglio 2008 da Il Giornale

Dopo la visita lampo di Silvio Ber lusconi a Tripoli c'era forse da aspettarselo: Seif El-Islam, il figlio «politico» di Gheddafi, annuncia alla TV che il suo Paese sta per concludere un accordo miliardario a chiusura del contenzioso con l'Italia per i danni del colonialismo, e il nostro premier conferma che spera di concludere uri «trattato di amicizia» con la Libia entro il 31 agosto. Peccato che l'annuncio dell'accordo coincida con tre nuove prove della inaffidabilità del Colonnello. Primo, è tornato ad usare, a negoziati in corso, l'arma di pressione della immigrazione clandestina, permettendo che migliaia di disperati partissero dalle coste libiche per riversarsi a Lampe dusa e in Sicilia e costringendo così Roma a proclamare lo stato d'emergenza. Secondo, ha rifiutato - unico fra gli invitati - di aderire alla Unione per il Mediterraneo che dieci giorni fa ha riunito a Parigi tutti i Paesi rivieraschi, sostenendo che si trattava di una forma di neocolonialismo. Terzo, non ha esitato a tagliare i rifornimenti di greggio alla Svizzera e di sbattere in galera con un pretesto due suoi cittadini a mo' di ritorsione per l'arresto a Ginevra di suo figlio Hannibal, colpevole di avere percosso due dipendenti. Viene spontaneo chiedersi se un trattato concluso con un personaggio così spregiudicato servirà davvero a chiudere una vicenda che si trascina da 39 anni, o diventerà solo un'altra tappa di un cammino che per l'Italia è stato costellato di spine.

La tesi di Gheddafi è che l'Italia non ha ancora indennizzato a sufficienza la Libia per i danni che le ha inflitto durante i 30 anni di dominio coloniale. Perciò, dopo avere espulso nel 1970 da un' ora all'altra ventimila nostri connazionali ed averli spogliati di tutti i loro beni, ha continuato a pretendere - con ricatti e minacce - varie forme di risarcimento. Prima sembrava accontentarsi di un ospedale, adesso esige la costruzione di una autostrada dal confine egiziano a quello tunisino del costo di circa tre miliardi. Grazie alla sua rinuncia alle armi di distruzioni di massa e al conseguente reinserimento della Libia nella comunità internazionale, la sua posizione nei nostri confronti si è raffor zata. Mentre, negli anni in cui era al bando a causa dei suoi coinvolgimenti con il terrorismo il nostro Paese era praticamente la sua unica sponda occidentale, oggi riceve investimenti da tutto il mondo e può commerciare con chi vuole; e, mentre noi abbiamo più che mai bisogno dei suoi idrocarburi, tanto che l'Eni ha appena concluso con Tripoli un accordo trentennale, la dipendenza della Libia dall'Italia è in calo. Le sue esportazioni verso di noi sono scese in cinque anni dal 42,8 al 37 per cento del totale e le sue importazioni dal 25 al 14. Quello che una volta era un «nesso di reciproca indispensabilità» si è perciò molto indebolito.

Con tutte le riserve del caso, la prospettiva di un accordo politico ed economico, che in qualche modo arresti questa tendenza negativa non è perciò da buttar via, ma solo a patto che chiuda davvero il contenzioso a condizioni non troppo onerose e avvii i due Paesi verso una nuova fase di collaborazione, che magari spiani la strada a una maggiore penetrazione sul mercato libico delle nostre piccole e medie imprese. Se proprio dobbiamo costruire l'autostrada, spalmiamone almeno i costi nel tempo, pretendiamo in cambio il saldo dei 600 milioni che la Libia deve a ditte italiane ed esigiamo che Tripoli risarcisca almeno in parte i nostri connazionali espulsi. In sintesi, l'accordo in fieri ci deve mettere al sicuro da future prepotenze.

 

 

 

 

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