La Libia chiude le sedi diplomatiche in Italia

di Paolo Della Sala

Del 29 marzo 2007 da L' Opinione

La Libia ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Italia. L’ambasciata di Roma è chiusa. I consolati di Roma, Milano e Palermo idem. Il sito dell’Ufficio Popolare della Gran Jamahiria Araba Libica Popolare Socialista (questa la definizione ufficiale della rappresentanza diplomatica) è “in costruzione”. Resta aperta soltanto la pagina dei contatti, ma al telefono non risponde nessuno, a Roma, a Milano come a Palermo. Ciò va avanti dall’inizio del mese, e senza che la Libia abbia dichiarato guerra all’Italia. La spiegazione ufficiale è rassicurante: la sede fisica dell’ambasciata sarebbe “in ristrutturazione”. Difficile credere che ciò possa bloccare per un mese tutte le attività diplomatiche -incluso il rilascio dei visti- senza che sia attivato un ufficio provvisorio. Più difficile ancora credere che improvvisamente e contemporaneamente tutte le rappresentanze libiche in Italia siano a rischio crollo. La Farnesina prende atto dei lavori in corso: il dottor Carlo Schillaci, responsabile dell’Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri, suggerisce di chiedere informazioni direttamente al governo di Tripoli. In effetti non sembra esserci altra soluzione, perché anche l’ambasciata libica presso il Vaticano risponde al telefono, ma solo per affermare che “dipende da un altro ambasciatore” e nulla sa di ciò che succede in territorio italiano. Perché allora questi “lavori in corso” nelle rappresentanze diplomatiche? Leone Massa della Airil (Associazione Italiana per i Rapporti Italo-Libici, fondata nel 2000 dalle aziende creditrici del governo di Gheddafi) sostiene che la chiusura “per ristrutturazioni” è un modo di premere su Prodi per ottenere nuovi contributi, in forma diretta o indiretta. Finora il governo italiano non ha aperto spiragli, da ciò deriverebbe questo pressing che non è solo folklore, ma blocca l’interscambio commerciale e gli ingressi di tecnici e manager italiani.

Eppure le relazioni economiche tra i due Paesi sono positive, con un interscambio quasi raddoppiato negli ultimi anni (da 867 milioni di euro nel 1999 a 1.516 nel 2004). Il saldo commerciale è in attivo per l’Italia, nonostante il massiccio import di petrolio e di gas, attraverso la pipeline sottomarina “Greenstream”. La Libia fornisce il 18% delle nostre materie prime energetiche, e a sua volta importa prodotti agricoli e di alta tecnologia. Ce ne sarebbe abbastanza per sviluppare ottime e paritarie relazioni, ponendo fine alla richiesta di indennizzi post-coloniali, visto che la Libia ha già incamerato 400 miliardi di beni italiani in Libia, nel 1970 (l’equivalente di 3 miliardi di euro attuali). Altri 700 milioni di euro sarebbero transitati attraverso la Sace, e di recente c’è stata la costruzione dell’ospedale di Bengasi, finanziata dall’Italia. Tuttavia molte aziende creditrici italiane (tra cui Impregilo e molte del settore edile) continuano a restare senza riscontri: la Libia ha bloccato i loro pagamenti, e di conseguenza hanno rivolto istanza alla Corte di Giustizia di Bruxelles. La chiusura pro tempore delle sedi diplomatiche rientrerebbe in questo gioco di spossanti tira e molla, che blocca lo sviluppo economico e politico. Sarebbe necessaria una presa di posizione più netta e meno temporeggiatrice da parte del governo italiano. La memoria torna al momento della rivendita delle azioni Fiat da parte dei libici. Non tutti ricordano che ciò avvenne esattamente un giorno prima dell’entrata in vigore della legge sui capital gain. Fu un altro tributo ufficioso al petrolio del Sahara? Troppi silenzi ricoprono il Mediterraneo –dai missili Scud lanciati su Lampedusa a Ustica-. Sarebbe necessario rompere con la tradizione levantina che fa sì che in Senato siano stati presentati tre diversi disegni di legge sui rimborsi alle aziende creditrici italiane: sono simili tra loro, e tutti in sostanza trasferiscono il debito da Tripoli a Roma. Se però sarà il governo di Roma a pagare i creditori privati italiani, i tira e molla continueranno e non si potranno più scaricare tutte le colpe su Gheddafi.

 

 

 

 

 

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