L'indignazione a corrente alternata

di Magdi Allam

Del 20 febbraio 2006 da Corriere della Sera

Ora che facciamo? Chiederemo scusa al presidente nigeriano Olusegun Obasanjo perché le vignette su Maometto hanno provocato la collera dei musulmani sfociando nel massacro di 16 cristiani e la distruzione di 11 chiese? O forse quei cristiani e quelle chiese non meritano lo stesso riguardo riservato alla trentina di musulmani finora uccisi nel mondo, da forze dell' ordine musulmane, per impedire loro di compiere ulteriori atti di vandalismo e di terrorismo? D' altro canto chi di noi sa che negli ultimi cinque anni circa seimila cristiani sono stati trucidati nel nord della Nigeria dove è in vigore la sharia e Bin Laden è un eroe? Ammettiamolo: l' Occidente si scandalizza solo quando viene messo, a torto o a ragione, nei panni del carnefice e solo quando le vittime, reali o presunte, sono dei musulmani. A questo punto il cardinale Bertone dopo aver auspicato che Calderoli sia condannato ai lavori forzati in Cirenaica, potrebbe completare il processo salvifico dell' Occidente raccomandando a tutti i cristiani almeno un mese di penitenza e di esercizi spirituali. I governi dei Paesi musulmani hanno sbagliato attribuendo prima alla Danimarca, poi all' Unione Europea, quindi all' Occidente, infine all' insieme della cristianità la responsabilità casomai soggettiva dei singoli vignettisti danesi. Ma i governi occidentali hanno commesso un errore speculare rifiutandosi di individuare, e possibilmente sanzionare, le responsabilità soggettive di chi ha istigato all' odio, ha condannato a morte mettendo cospicue taglie sulla testa dei vignettisti, ha dato l' ordine di assaltare, incendiare, saccheggiare ambasciate e chiese. All' opposto l' Occidente ha maturato il convincimento che l' ondata di violenza sia una reazione automatica e giustificata da parte di un blocco monolitico chiamato arbitrariamente «Islam». Di fronte al quale per paura, viltà e collusione ideologica si genuflette e chiede perdono, assumendosi la responsabilità degli atti di violenza e di terrorismo commessi dagli altri contro i beni e le vite occidentali e cristiane. In questo contesto l' Italia primeggia nell' offesa, non all' Islam, ma alla propria credibilità come Stato sovrano e alla nostra dignità come cittadini liberi. Questa classe politica, governo e opposizione, sta sbagliando tutto genuflettendosi davanti a Gheddafi. Un folle tiranno che prima ha aizzato i libici ad aggredire gli italiani, poi ha ordinato di sparare su una folla trattata come carne da macello, infine ha proclamato un giorno di lutto nazionale e assegnato un posto certo in Paradiso agli undici morti elevandoli al rango di «martiri». Ma ci rendiamo conto che ci siamo affrettati e affannati a chiedere scusa a Gheddafi per un attentato terroristico al nostro consolato a Bengasi di cui lui è l' unico vero responsabile? In questo contesto le vignette su Maometto considerate blasfeme, e la provocazione di un ministro italiano certamente irresponsabile, risultano solo strumentali a una deliberata e annosa strategia di Gheddafi incentrata sul ricatto e il condizionamento dell' Italia. In questa tragica e umiliante vicenda Berlusconi si è fatto dettare la linea da Pisanu, che a sua volta si è fatto dettare la linea da Gheddafi. Mi spiace ma io non ci sto: mi va bene che Calderoli venga licenziato, ma non per ordine di Gheddafi. Rendiamoci conto che da questa crisi l' Italia potrebbe uscire come un Paese a sovranità limitata. Solo che a limitarla non è una superpotenza occidentale con cui condividiamo la stessa civiltà, bensì un piccolo Stato del Terzo mondo sottomesso a una dittatura illiberale. E pensare che è stata proprio l' Italia, insieme all' allora presidente della Commissione europea Prodi, a prodigarsi per accreditare una verginità politica a un tiranno costretto dall' Onu a una lunga quarantena per la responsabilità diretta, da lui ammessa versando milioni di dollari di indennizzo, nella strage dei passeggeri degli aerei della Pan Am nel 1988 e dell' Uta nel 1989. Ebbene credo che sia arrivato il momento di assumere seriamente una strategia energetica che ci affranchi dalla schiavitù del petrolio e del gas, di cui proprio dalla Libia attingiamo un terzo del nostro fabbisogno. E liberiamoci dal pregiudizio che appiattisce i musulmani alla sola sfera religiosa. Non esiste l' homo islamicus. Il ministro degli Esteri Fini non si illuda di risolvere la crisi recandosi in visita alla moschea di Roma. Solo una minoranza di musulmani frequenta le moschee. I gestori delle moschee non sono delle autorità religiose, non rappresentano i musulmani. A maggior ragione in Italia dove il vuoto legislativo e il «volemose bene» hanno acconsentito a imam autoeletti e a sedicenti «comunità islamiche» di controllare la gran parte delle moschee. Dopo esserci spezzata la schiena a furia di scusarci per le vignette considerate blasfeme, come ci comporteremo quando alla prossima tornata l' Italia verrà accusata di offendere l' Islam perché, ad esempio, discrimina le scuole coraniche o il marito poligamo?

 

Quanto ci piace la politica del buffonismo

Del 20 febbraio 2006 da Il Riformista

«Ho la consapevolezza di non essere responsabile di nulla». Così ha dichiarato il ministro Calderoli al Corriere poche ore dopo le sue dimissioni. Il «nulla» cui si riferiva erano gli undici morti di Bengasi. Ma, grazie allo stentato italiano, la doppia negazione si è trasformata in lapsus freudiano, rivelando un significato più profondo, e quasi simbolico. Molti uomini pubblici non si sentono responsabili di nulla. Interpretano il proprio ruolo come un mero esercizio di personalità, finalizzato a garantirsi ciò che, con un altro cambio semantico, viene ormai comunemente definita «visibilità». Più che alle loro funzioni rispondono al proprio pubblico, come farebbe un attore o una rock star. Aggiungetevi il proporzionale, e la frittata di un'intera classe dirigente è fatta. Qualche ora prima degli incidenti di Bengasi, l'Economist arrivava in edicola chiedendosi che cosa avrebbero pensato gli islamici che protestano per le offese recate al Profeta nel sentire che il premier italiano si paragona a Gesù: «Una prova che l'Occidente è incorreggibilmente empio?». Eppure in Italia il riferimento non è apparso neanche lontanamente blasfemo, ed è stato rubricato insieme ai paragoni con Napoleone e Churchill solo per confermare, tra il divertito e l'indignato, l'immagine di un leader un po' mattocchio ma decisamente geniale nel conquistare la scena. Esagerare è bello, nella nostra politica. L'iperbole riscuote una certa ammirazione, innanzitutto nei media, che la cercano, la auspicano, e quando possono la provocano. Calderoli meritava il licenziamento per l'offesa razzista alla giornalista abbronzata che sa di deserto e cammelli forse anche di più che per la t-shirt. Ma se a Bengasi la polizia fosse stata appena più accorta, sarebbe ancora al suo posto. Qualcosa di travolgente ha sconvolto il lessico e lo stile della nostra classe politica in poco più di dieci anni, trascinandola dai modi felpati, prudenti, deliberatamente anonimi del ceto democristiano (possiamo ancora ammirarne le vestigia nel ministro Pisanu), in una gara circense a chi la spara più grossa. Il risultato è che, alla scuola del berlusconismo, è venuta su una generazione di buffoni. Il fenomeno non riguarda solo il centrodestra. Anche dall'altra parte c'è chi ha deciso che la serietà non paga, e che bisogna seguire l'esempio, solo rovesciato. Tutti nella «consapevolezza di non essere responsabili di nulla», se non del proprio successo. Il sistema dell'informazione ha coccolato questo vizio. La politica del gesto, situazionista, roboante, viene generalmente considerata più efficace e brillante. Tant'è vero che si avverte, nelle critiche pur giuste alla debolezza mediatica di Prodi, un rimprovero implicito: diamine, fa pure tu qualche sparata, dicci una cosa da tribunale, dacci un insulto. Giuliano Ferrara, che è una persona seria ma che sa per esperienza professionale che cos'è la tv spazzatura, dice che il bello di Berlusconi è questo (essendone rimasto poco altro da apprezzare): almeno ci siamo divertiti, e quando il centrosinistra andrà al governo sarà una noia mortale. Verrebbe da dire: fortunati i paesi in cui la politica annoia (anche se, ahinoi, temiamo che neanche il centrosinistra ci annoierà). E l'odio per l'Islam che fa capolino dal torace di Calderoli non può sorprendere in un paese che ha accolto nel mainstream della cultura nazionale il disprezzo antropologico dell'Islam, trasformandolo nei best-seller della Fallaci. Questo collasso dell'etica della responsabilità non produce solo danni estetici, ma politici. Il risultato è che siamo un paese preso meno sul serio perché si prende poco sul serio. Essendone consapevoli, finiamo con auto-limitarci persino nella difesa dell'interesse nazionale. Il caso libico è emblematico. L'assalto di Bengasi, preceduto da un'escalation di attacchi all'Italia guidati direttamente dal regime, è un evento di portata incomparabilmente più grave della t-shirt di Calderoli. Eppure abbiamo taciuto prima, e poi ci siamo ridotti nella condizione di essere noi a implorare perdono perché uno degli acrobati del circo ha sputato sulla folla. Il buffonismo ci rende più deboli, e meno temuti. Allora basta che un dittatore vicino di casa ci strizzi l'occhio facendoci capire che intercederà perché le bombe ci scansino, ci ricatti con qualche migliaio di clandestini pronti ad imbarcarsi per Lampedusa, e ci lusinghi con un po' di gas che di questi tempi è il simbolo della nostra dipendenza, ed ecco che siamo lì a fare la fila davanti a una tenda per adularne la grandezza e auspicarne i favori. Viviamo tutti nella consapevolezza di non essere responsabili di nulla, non solo Calderoli. Secondo i canovacci della commedia dell'arte, una delle nostre più grandi invenzioni, recitiamo alla giornata, facendo attenzione più a quello che sembriamo che a quello che diciamo. Per questo, da noi, la televisione conta tanto. Il resto del mondo lo sa, lo vede, e ne tiene conto.

 

Fino a che punto ci caleremo le braghe? È passata l'idea che se una nostra ambasciata viene assalita, un ministro si dimette e loro ci lasceranno in pace

Del 20 febbraio 2006 da Il Foglio

Non è stato soltanto un sanguinoso contrasto tra un lampo d'imbecillità e un rigurgito di barbarie, il caso della T-shirt satanica tra Gemonio e Bengasi, un'arlecchinata mi­nisteriale contro il solito assedio a un consolato occidentale più l'aggiunta di un massacro. Ora che Calderoli se n'è an­dato, ora che il senso dello stato ha suggerito prudenti di­missioni, ora che è restaurato il pucci pucci diplomatico con un paese importante per il nostro approvvigionamento ener­getico, ora che i biscotti danoni sono finiti in castigo e la Nestlè ha aumentato le sue quote di mercato, ora bisogna domandarsi che cosa vogliono loro da noi e che cosa voglia­mo noi da loro, se volere e potere siano ancora due verbi co­nosciuti alle cancellerie europee e occidentali. Ci hanno vietato di scherzare su quel che per loro è sa­cro, anzi un tabù. Un divieto complicato dal fatto che da noi l'unica cosa rimasta sacra è il linguaggio libertario della satira, il nostro tabù laico e secolarista, l'ultimo rifugio del­lo spirito di Voltaire. Mentre noi disegnavamo e pubblica­vamo vignette, loro assaltavano le ambasciate, ammazza­vano un prete cattolico al grido «Allah è grande», ci face­vano assaggiare il significato della parola “umana”, una co­munità mondiale legata nel più puro spirito identitario, fi­no al fanatismo, da sentimenti di rivalsa etnica, geopoliti­ca e soprattutto profetica. Una comunità in grado di mobilitarsi, di distruggere i nostri simboli e bandiere, di divi­derci e umiliarci in molti modi. Il loro divieto è passato, è già storia. Con loro non si scher­za. Ma anche a far sul serio bisogna starci attenti. Guantanamo, prigione di guerre per tempi di guerra, biso­gnerà chiuderla, prima o poi. Con l'organizzazione terrori­stica che ha vinto le elezioni palestinesi bisognerà trattare, prima o poi. A manifestare davanti a una loro ambasciata, nel modo più serio e dialogante possibile, ci abbiamo pro­vato, dopo che un loro capo di stato aveva minacciato di can­cellare Israele dalla carta geografica; ma anche quella ma­nifestazione politica, che non era una vignetta blasfema o li­bertaria, fu oggetto di attenzioni, ricatti diplomatici, pro­messe di ritorsione e di boicottaggio. Tutti gesti andati a buon fine, gesti utili, efficaci. Se vogliono la nostra umiliazione politica, se la vogliono facendo risuonare la minaccia della rabbia islamica in tut­ta la comunità, compresa quella insediata a Londra, a Milano, ad Amburgo, a Parigi, ottengono il loro scopo senza troppa fatica. Noi ci teniamo alla sicurezza del nostro per­sonale diplomatico, delle nostre merci, delle nostre metro­politane, e tanto ci teniamo che siamo disposti a subire ogni tipo di pressione, ci dividiamo regolarmente nella risposta, ci odiamo tra noi e ci rimproveriamo di non fare abbastanza per evitare grane. Perfino Berlusconi si è consegnato al­la linea del «dialogare, dialogare, dialogare». E allora spiegateci che cosa vogliamo noi da loro, che cosa teniamo per sacro, che scuse chiediamo e che pressioni fac­ciamo per averla vinta su questioni di un certo peso. I nostri cosiddetti islamofobi, cioè coloro che non vogliono calare le braghe, sono tutti sotto scorta, dalla Fallaci alla Hiroi Ali. Chi per aver scritto un saggio, chi per aver sceneggiato un film sul­ la condizione della donna nell'islam, alcuni sono morti come Theo Van Gogh. Cristiani vengono martirizzati o fatti santi, Magdi Allam deve scrivere di nascosto le sue verità, minac­ciato di morte per apostasia. C'è gente che sa di bruciato, opi­nioni che non si possono portare in pubblico. È passata l'idea che se una nostra ambasciata viene assalita, il nostro ministro si dimette e loro ci lasciano in pace. L'idea grottesca che il no­stro unico strumento sia il dialogo e il loro unico mezzo la guerra. Ciò che vogliamo da loro è di essere lasciati in pace, e per ottenere questo scopo, che è il dogma della religione multiculturale, siamo disposti a tutto, ma proprio a tutto, perfino a riscoprire il sacro e la blasfemia dopo averli aboliti in no­me delle virtù laiche del relativismo culturale. Ma la pace ha un cartellino con su scritto il prezzo, e chi non paga non avrà altro in mano che un cumulo sempre maggiore di minaccia e di violenza.

 

La scure di Gheddafi contro gli “eretici”

di Eric Salerno

Del 20 febbraio 2006 da Il Messaggero

Lui li chiama zanadiq, eretici. Sono pratica mente tutti i movimenti islamisti libici che Gheddafi considera nemici della Giamahiria. Non soltanto i Fratelli musulmani (Al-Jama'a al-Islamiya al-Libyia) che all'inizio degli anni Ottanta, con l'aiuto di studenti rientrati da altri Paesi arabi e europei, diffondevano la loro aspirazione di istituire un regime islamico basa­ to sulla Sharia, ma anche e soprattutto gruppi meno noti composti da elementi nati e cresciuti all'ombra della guerra contro l'intervento del l'Urss in Afghanistan. La repressione fu durissima. Nel 1987, sei esponenti dei Fratelli musulmani, accusati di aver ucciso un alto ufficiale dei servizi di sicurez­ za, furono impiccati pubblicamente nello stadio di Bengasi e l'esecuzione fu trasmessa dalla televisione. Un'altra ondata repressiva risale al 1998 dopo l'attentato (mai confermato ufficialmen te) al Leader, quando il suo convoglio diretto in Egitto venne attaccato trenta chilome­tri a Est di Bengasi da militanti di un fantomati­ co “Movimento dei martiri islamici”. Arresti, qualche condanna capitale, persone scomparse senza più lasciare traccia, ma negli ultimi sei o sette anni, soprattutto in Cirenaica, è stata segnalata la presenza di cellule segrete, troppo piccole, apparentemente, per costituire un perico­ lo serio al regime. Alcuni jihadisti sono stati arrestati o uccisi appena rientrati dall'Iraq dove erano andati a combattere contro la coalizione occidentale. Ma altri, nonostante gli sforzi dei servizi segreti, sarebbero riusciti a nasconderai e forse a fare proseliti favoriti dalla crescita di sentimenti religiosi nella popolazione non sol­tanto della regione occidentale della Libia. L'anno scorso, trecento esponenti dell'opposi­ zione a Gheddafi si sono riuniti a Londra per formulare un documento in cui auspicavano il passaggio della Libia a un regime democratico. La loro piattaforma escludeva l'uso della forza. Il proseguimento delle violenze a Bengasi, la seconda città della Libia, dopo l'assalto apparen­ temente pilotato al consolato italiano dell'altro giorno, potrebbe confermare l'ipotesi che le ma­ nifestazioni cominciate in modo pacifico siano state infiltrate da forze islamiste contrarie a Gheddafi e soprattutto al suo avvicinamento all'Occidente. Una grande incognita è rappresen­ tata dalla posizione delle forze armate che, secondo fonti occidentali, potrebbero essersi avvi­ cinate, in questi anni, alle posizioni islamiste.

 

Vignette satiriche… tutto iniziò il 30 settembre

Del 20 febbraio 2006 da Italia Sera

La violenza che si è consumata davanti al consolato italiano di Bengasi, in Libia, è solo l'ultimo episodio di una lunga serie di proteste incandescenti, innescate dalla pubblicazio­ ne di alcune vignette satiriche che ritraggono il profeta Maometto. Le caricature hanno acceso gli animi del mondo islamico, provocando una violenta campagna d'odio contro i Paesi europei che per primi le hanno pubblicate e per estensione contro l'Occidente, spingendo qualcuno a parla­ re di scontro di civiltà. Di seguito una cronologia degli eventi che sono seguiti alla pubblicazione, sul giornale cat­ tolico danese Jylìans Posten, delle controverse vignette. È il 30 settembre del 2005; le 12 caricature, con il profeta Maometto raffigurato con una bomba al posto del turbante, appaiono per la prima volta sul quotidiano danese “Jyllands Posten” che rivendica la libertà di espressione. Il 12 ottobre, con una protesta formale, 11 ambasciatori di Paesi arabi in Danimarca chiedono con urgenza un incontro con il pre­ mier Anders Fogh Rasmussen. Il governo respinge però la protesta ed il primo ministro afferma, proprio al quotidiano “Jyllands Posten”, che non è compito del primo ministro “spiegare ad un gruppo di ambasciatori come funziona il Paese”. A dargli ragione è in Olanda la parlamentare di ori­gini somale, Ayaan Hirsi Ali, che ha sceneggiato il contro verso film costato la vita al regista Theo van Gogh. Passa quasi un mese, e il 7 novembre il Pakistan condanna le cari­ cature, definendo un “atto di islamofobia” la loro pubblica­zione ed il ministero degli Esteri sottolinea come “tali azio­ ni creino un solco dove si cerca di costruire un ponte”. Cambia il calendario e il 20 gennaio 2006, il giornale nor­ vegese “Magazinet” emula il Posten e pubblica le vignette per solidarietà. Si riaccendono le polemiche del mondo arabo e gli appelli al boicottaggio dei prodotti danesi e nor­vegesi. Dieci giorni dopo il ministero degli Esteri norvege­ se ordina l'evacuazione del personale volontario nella stri­ scia di Gaza e avverte i connazionali di non recarsi nei Tenitori dopo le minacce della Jihad islamica. Carsten Juste, direttore del “Jyilands Posten”, si scusa affermando che la pubblicazione delle vignette “non intendeva essere offensiva”. Il 31 gennaio, un allarme bomba alla redazione del “Jyilands Posten” di Copenaghen che viene evacuata dopo una telefonata minatoria. Il giorno dopo il quotidiano francese “Trance Soir” e il tedesco “Die Welt” pubblicano le caricature e rivendicano la libertà di stampa. Dopo Libia e Arabia Saudita, anche la Siria richiama il proprio ambascia­ tore a Copenaghen per consultazioni, fl 2 febbraio, il diret­ tore di “France Soir”, Jacques LeFranc, viene licenziato per aver pubblicato le vignette. Gruppi armati palestinesi minacciano di “trasformare in bersagli” i francesi, norvege­ si e danesi che si trovano a Gaza e in Cisgiordania e danno un ultimatum di 48 ore per ottenere le scuse formali dai governi di Norvegia, Danimarca e Francia. La protesta si allarga ad altri Paesi e l'Ue condanna le loro minacce, il 3 febbraio viene attaccata l'ambasciata danese di Giacarta da parte di un gruppo di indonesiani islamici che fa irruzione all'interno della sede diplomatica. L'ambasciatore danese è costretto a scuse formali. Proteste nella capitale indonesiana anche davanti alla sede del quotidiano “Rakyat Merdeka” (Popolo indipendente) che ha pubblicato le vignette. In Pakistan il senato approva all'unanimità una risoluzione di condanna contro i media europei. In Svizzera la lega dei musulmani giudica “inaccettabile” la pubblicazione delle caricature sui media locali. Intanto anche alcuni giornali fiamminghi le pubblicano in Belgio. Manifestazioni a Mogadiscio, in Somalia, dove vengono bruciate bandiere danesi e norvegesi, in Giordania, dove i manifestanti chie­ dono la chiusura dell'ambasciata danese. In Italia le vignet­ te vengono pubblicate dai quotidiani “La Padania” e “Libero”, mentre altri media italiani decidono di pubblicar­ ne solo alcune. Il giorno dopo a Damasco, manifestanti danno alle fiamme le ambasciate di Danimarca e Norvegia e tentano l'assalto della sede diplomatica francese, il 5 feb­ braio si verificano scontri di piazza a Beirut, dove circa 2mila persone riescono a raggiungere il consolato danese e gli danno fuoco. La polizia respinge i dimostranti con idranti e lacrimogeni ma la guerriglia si diffonde anche nel quartiere cristiano maronita. In Turchia, il sacerdote italiano Andrea Santoro viene ucci­ so da un giovane al grido di “Allah è grande”. Il 6 febbraio la violenza arriva in Afghanistan, dove 4 persone restano uccise negli scontri, e in Somalia, dove sono due le vittime. L'8 febbraio sempre in Afghanistan, truppe dell'Isaf inter­ vengono per respingere i manifestanti che si accalcano davanti alle basi militari e alle ambasciate europee. Muoiono quattro afgani.

 

La squadra impresentabile che ci ha governato

di Eugenio Scalfari

Del 19 febbraio 2006 da La Repubblica

Non è la prima volta che Calderoli si dimette da ministro delle Riforme. Lo fece qualche mese fa per mantenere il voto parlamentare sulla legge detta «devolution» al primo posto nell'agenda delleCamere. Quel gesto, spallegiato da Bossi e fiancheg­giato dallo stesso presidente del Con­siglio, serviva a mettere in riga il parti­to di Casini e riuscì perfettamente nell'intento. Le dimissioni furono pron­tamente ritirate e la legge passò con il voto blindato di tutta la maggioranza. Questa volta il caso è diverso, c'è di mezzo il rapporto con la Libia, deposi­to e serbatoio del flusso imponente dell'emigrazione clandestina africana. Ci sono di mezzo anche undici morti e decine di feriti, ma di quest'a­spetto cruento delle goliardate leghi­ste nessuno si preoccupa, né in Italia ma neppure in Libia, quella gente è carne da cannone e di loro chi se ne fre­ga. Apro una parentesi: per virtù di Berlusconi la Libia è da due anni uscita dall'elenco degli Stati-canaglia e dall'embargo che vigeva fin dai tempi di papà Bush. La sua «riconquista» alla democrazia occidentale e all'amicizia con l'Italia è stata più volte celebrata e portata ad esempio nsieme alle ele­zioni democratiche (?) in Egitto, in Li­bano e in Iraq. Per noi in particolare è stato sbandierato come grande suc­cesso l'accordo di congiunta sorveglianza dei porti libici per impedire gli imbarchi clandestini. Il nostro mini­stro dell'Interno è stato varie volte a Tripoli affiancato da folte delegazioni e tornandosene a casa onusto di allori e di protocolli di intesa. Risultati concreti neppure l'ombra: gli imbarchi dei clandestini sono tran­quillamente continuati. Ma ora ap­prendiamo dallo stesso governo che la Libia è rimasta un paese dominato da un regime di terrore e che il malanimo contro l'Italia è più vivo che mai. Noi lo sapevamo da un pezzo, ma la versione ufficiale dipingeva bianco quello che ora risulta nero e il sistema televisivo comunicava fedelmente il messaggio alle masse degli italiani in ascolto. Contrordine: non è così. Il colonnello Gheddafi è tuttora un nostro acerrimo nemico. Comunque il caso Calderoli non èun episodio personale dovuto all'ir­ruenza non controllabile d'un perso­naggio bizzarro. Il caso Calderoli na­sce nell'humus leghista, nella innata patologia leghista, nella sua anomalia che però da cinque anni costituiscono il puntello più efficace di Berlusconi nei confronti degli altri suoi alleati e nel dominio elettorale (almeno finora) delle grandi regioni padane. I vertici il Cavaliere li fa con Fini e Casini ma per Bossi c'è il trattamento speciale della cena del lunedì nella villa di Ar­core, con il sottosegretario Brancher come terzo convitato, quello stesso che nelle deposi­zioni del banchiere Fiorani ri­sulta destinatario di cospicue elargizioni da parte della Banca popolare di Lodi. Il ministro Fini e il ministro Buttiglione hanno detto l'altro ieri che il comportamento di Calderoli è ergognoso. La ve­rità è un pò diversa: è vergogno­so che Calderoli sia ministro della Repubblica come è vergo­gnoso che il ministro della Giu­stizia sia Castelli ed è altrettanto vergognoso lo sia Lunardi, mi­nistro dei Lavori Pubblici e al tempo stesso appaltatare di la­vori pubblici. Lunardi semmai ha la scusante che il vero titolare dei conflit­ti d'interesse è lo stesso presi­dente del Consiglio. In questo ha ragione. E' infatti vergognoso che al vertice del potere esecutivo sieda Silvio Berlusconi. Del sondaggio americano nessuno ormai parla più, nep­pure il suo Committente. E' stato affondato dal semplice fatto che la ditta che l'ha effettuato è il consulente della campagna elettorale del Committente, per conseguenza il sondaggio costi­tuisce uno degli elementi della onsulenza. Ma ne accenno qui solo per ri­cordare un particolare abba­stanza umoristico oltre che rive­latore: quando il Committente annunciò d'avere affidato alla Pbs un sondaggio elettorale dis­se che essa avrebbe certificato l'avvenuto sorpasso rispetto alla coalizione avversaria. Lo an­nunciò, il sarpasso, nel momento stesso in cui dava il via a quel sondaggio del quale però conosceva già l'esito prima ancora che fosse effettuato. Una pre­veggenza fantastica, fuori dal comune. Accanto a Napoleone e a Gesù Cristo abbiamo la rein­carnazione dell'oracola di Delfi e della Sibilla Cumana. Poi si di­ce che un uomo così ce lo invidiano anche all'estero. Lo credo bene. Ce lo invidiano e ne rido­no a crepapelle. Purtroppo per noi non è un oggetto esportabi­le. Se glielo mandassimo in dono respingerebbero il pacco al mit­tente senza neppure aprirlo.Accantonato il sondaggio, ora si discute se il Contratto con gli italiani firmata in carta da bolla da Berlusconi durante la cam­pagna elettorale del 2001 sia sta­to onorato oppure no. C'è chi giura sul suo completo adempimento, chi lo nega e chi si tiene a mezza strada e fornisce percentuali più o meno verificate e verificabili. Se ne parla da Vespa, se ne parla a «Prima Piano», se ne par­la soprattutto nel salottino tele­visivo di Giuliano Ferrara e in altri luoghi consimili. La verità l'ha bene scritta Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Noi — se è permessa l'autocita­zione—l'avevamo scritto fin da allora cinque anni fa e poi l'ab­biamo ripetuto fino alla noia. La verità è dunque questa: l'o­biettivo principale di quel con­tratto era sbagliato in radice. Primoperché era irrealizzabile e lo si sapeva fin da allora. Se­condo perché quand'anche fos­se stata realizzato era un obiet­tivo non utile al buon andamen­to dell'economia italiana. Per questo è del tutto inutile discu­tere se sia stato realizzato o no. L'obiettivo principale, che fu in gran parte l'elemento della vittoria del centrodestra, era la riforma delle aliquote Irpef e Ir­peg e il connesso abbattimento della pressione fiscale. Impro­babile da realizzare perché pro­prio all'inizio del 2001 (e non dopo l'11 settembre come an­cora afferma Tremonti) comin­ciò a sgonfiarsi rovinosamente la bolla speculativa che aveva sostenuta per anni la Borsa americana e la domanda inter­nazionale. Un governo capace avrebbe dovuta sapere che la domanda mondiale, consumi e investi­menti, stava entrando in situa­zione di ristagno, che il Pil dei paesi industriali sarebbe dimi­nuita e che diconseguenza le entrate tributarie avrebbero registrato serissime difficoltà. In queste condizioni ridurre la pressione fiscale e volgere verso più basse aliquote le im­poste sul reddito era un rischio della massima gravità. Ma tutto questo fu volutamente ignora­to. Dico volutamente perché Berlusconi e i suoi spin doctors elettorali erano sicuri (ed in questo avevano ragione) che lo slogan «meno tasse per tutti» avrebbe assicurato la vittoria. Di qui la grande idea del Contratto e di qui il vincolo che il «pre­mier» pose al suo ministro del­l'Economia: ridurre le aliquote doveva essere l'obiettivo da rea­lizzare a tutti i costi. Del resto lo è ancora oggi visto che il «pre­mier» promette e s'impegna per i prossimi cinque anni ancora sul tema della riduzione delle tasse (il che tra l'altro è l'ennesi­ma conferma che quell'obietti­vo non è stato realizzato).Tremonti naturalmente ub­bidì. Con ritardo ma non per colpa sua. Nei primi cento gior­ni (ma anche nei secondi e nei terzi cento giorni) la legislazio­ne ad personam e l'inutilissima battaglia sull'articolo 18 (che fu poi abbandonata come un figlio bastardo) impegnarono le ener­gie di tutto il governo e di tutta la maggioranza. Ma poi arrivò il momento di adempiere all'im­pegno maggiore. Si buttarono al vento i primi 6 miliardi, poi altri 6 e ci si preparava ad arrivare ad un totale di 18. Ventiquattromi­la miliardi di vecchie lire gettate dalla finestra che ebbero effetto zero sui consumi, sugli investi­menti, sulla competitività, sulla dimensione delle imprese. Ma ebbero effetto rovinoso sulla fi­nanza e sull'economia nel suo complesso: avanzo primario di­strutto, debito pubblico au­mentato, esportazioni in crollo, perimetri internazionali saltati. Per evitare la bancarotta cer­tificata piovvero i condoni, la fi­nanza creativa, lo spostamento del eso fiscale sugli enti locali e sui servizi, l'accrescimento delle imposte indirette sui consu­mi e sugli affari. Nei più recenti dibattiti televisivi Tremonti sostiene che l'azzeramento dell'attivo di bi­lancio non ha alcuna importan­za e che viceversa quello che conta è l'andamento del debito pubblico che per noi sta andan­do bene. Per me è fonte di crescente e anche ammirato stupore ascol­tare queste affermazioni da par­te del ministro dell'Economia che ce le propina nella convin­zione evidente di avere come interlocutori dei perfetti imbecilli (tra gli interlocutori ci metto per primi 50 milioni di elettori ai quali queste affermazioni sono rivolte). Ma a questo punto voglio osservare: 1.Quando il rapporto fra entrate e spese è squi­librato l'avanzo primario del bi­lancio sparisce e diventa disa­vanzo. Così è sattamente avve­nuto nei cinque anni di governo del centrodestra. 2. Quando il bilancio è in disa­vanzo lo Stato non può che ri­correre al debito pubblico o all'inflazione. Non potendo far ri­corso a quest'ultima poiché non è più nelle mani della Banca Centrale Nazionale, si è fatto appunto ricorso al debito. Esso fu ridotto, in rapporto al Pil, dal go­verni di centrosinistra a quota 105 creando nel contempo un avanzo primario di bilancio pa­ri al 5 percento del reddito. Il go­verno Berlusconi-Tremonti ha mandato in disavanzo il bilan­cio ed ha riportato il debito pub­blico a 107-8. Probabilmente il 2006 si chiu­derà con un debito a livello di 110 rispetto al Pil.Voglio infine spiegare perché gli obiettivi del governo, ove mai fossero stati realizzati, sarebbe­ro stati soltanto un inutile sper­pero di denaro. L'economia italiana non ha bisogno di stimolare la crescita della domanda ma piuttosto la crescita dell'offerta: offerta di nuovi prodotti, cioè innovazio­ne. In questa situazione lo sti­molo fiscale deve essere con­centrato sulle imprese e non sui redditi personali. Ridurre il cu­neo fiscale è utile alla competiti­vità, ridurre le aliquote Irpef è inutile specie se la maggior ridu­zione va ad avvantaggiare i red­diti più elevati. Onorevole Tremonti, la sua pagella contiene dunque cifre e orientamenti sbagliati. Lei me­rita zero in profitto ma lode in capacità di accalappiare i gonzi. Spero vivamente che questa volta i gonzi siano pochi.

 

Rispettare anche i cristiani

di Rocco Bottiglione

Del 19 febbraio 2006 da Il Tempo

Calderoli si è dimesso e la Lega deve decidersi ad uscire da una adole­ scenza goliardica ed irrespon­ sabile già troppo prolungata e risolversi a diventare una seria ed affidabile forza di go­ verno. Se Calderoli avesse ri­ fiutato di dare le dimissioni il Capo del Governo avrebbe dovuto togliergli tutte le dele­ ghe. Di più non sarebbe stato possibile fare perché a termi­ ni di Costituzione vigente il Capo di Governo non ha pote­ re di dimissionare un mini­ stro. Potrà farlo quando an­ drà in vigore la riforma ap­ provata in questa legislatura, ma non prima. Calderoli ha dovuto dimet­ tersi perché la linea del go­ verno italiano non è quella dello scontro con l'Islam ma quella della lotta al terrori­ smo nel rispetto del senti­mento religioso degli islami­ci. Islam e terrorismo sono due cose diverse. Calderoli si doveva dimettere anche per un altro motivo. La linea del governo italiano è quella del rispetto della religione come tale, del sentimento religioso come tale. Le religioni si possono criti­ care ma non si possono dileg­ giare. Questo vale per l'Islam ma vale egualmente per l'ebraismo e per il cristianesimo . Dette queste cose con asso­ luta chiarezza, bisogna però dire con eguale chiarezza che non ci piace l'atteggiamento della sinistra e di buona par­ te della stampa assunto in questa occasione. Ci pare ir­responsabile ed ipocrita. Ipocrita: Calderoli ha in­ dossato una maglietta con una vignetta vergognosamen­ te anti-islamica. Diversi gior­ nali europei di vignette così ne hanno pubblicato non una ma dodici, in nome della difesa della libertà di stampa . La manifestazione di Ben gasi era contro la vignetta, contro i giornali e contro Cal­ deroli. Se Calderoli ha una gravis­ sima responsabilità, in quan­ to rappresentante del Gover­ no, non è possibile scaricare da ogni responsabilità i gior­ nali che le vignette hanno pubblicate. Per di più sareb­ be da vigliacchi pensare che gli islamici vanno rispettati perché insorgono bruciando i consolati e provocando tu­ multi in cui muoiono decine di persone. Gli islamici van­ no rispettati esattamente co­ me i cristiani e gli ebrei per­ché è abominevole offendere il sentimento religioso in ge­ nerale. Alcuni dei giornali che oggi attaccano Calderoli si distin­ guono usualmente per la lo­ ro cristianofobia: non perdo­ no occasione non per criticare ma per dileggiare le convin­zioni ed i simboli del cristia­ nesimo e per invitare all'odio contro i cristiani.

 

I libici in piazza non protestavano contro Calderoli

di Maurizio Stefanini

Del 19 febbraio 2006 da Libero

Chi c'è dietro le mani­festazioni anti-italiane di Bengasi? Un fatto, l'ha os servato Magdi Allam sul Corriere della Sera, è che subito prima dell'assalto al consolato il presidente del Congresso generale del popolo, il parlamento libico, aveva annunciato l'intenzione di «riaprire il dossier con l'Italia», mi nacciando la rottura delle relazioni diplomatiche e chiamando il popolo a manifestare contro la “crociata” del ministro Calderoli. Un altro fatto è però che l'assalto alla nostra rap­presentanza è stato poi stroncato con energia fe­ roce, se si pensa agli 11 morti e ai 50 feriti che è costata la battaglia tra po­ lizia e manifestanti. Ed un terzo fatto ancora è che Gheddafi potrà forse non esserci simpatico, ma agli integralisti lo è ancora di meno. Anzi, lo considera­ no un eretico. Sia per cer­ te sue prese di posizione femministe, almeno per la mentalità corrente in Me­ dio Oriente. Sia per la de cisione da lui presa di far ispirare l'Islam libico al solo Corano e non al cor pus di tradizioni e “detti” del Profeta contenuti nel­la Sunna: un'idea da con siderare, in termini mu­ sulmani, l'esatto equiva­ lente di quel che fece Mar­ tin Lutero quando procla­ mò che unica guida del cristiano doveva essere la Bibbia. Gheddafi, d'altronde, questo odio lo ricambia in modo cordiale. «Tagliate loro la testa e gettatela nella strada come quella di un lupo, di una volpe, di uno scorpione», incitava già all'inizio degli anni ‘90 il Colonnello nei suoi di­ scorsi alla gioventù libica a proposito degli integrali­ sti: «Più pericolosi dell 'Aids, del cancro e della Tbc». LA CITTÀ RIBELLE Tra l'altro, è proprio a Bengasi la principale roc caforte dell'Harakat Al- Tajammu Al-Islami, “Mo­ vimento dell'Adunanza Islamica”, gruppo clande­ stino vicino ai Fratelli Mu­ sulmani. Come in gran parte del mondo islamico, il fatto che non sia con­ sentita opposizione al re­gime ma che non si possa nel contempo impedire alla gente di radunarsi nelle moschee fa si che gli integralisti ne approfittino per capitalizzare lo scontento popolare, indirizzandolo sulle loro posizioni. Dalla metà degli anni 90 è poi emerso anche l' al-Jama al-Islamiyyah al-Muqatilah fi-Libya, “Movimento dei Martiri Islamici Libici”, fondato da libici che erano andati volontari in Afghanistan a combattere contro i so­vietici, e attivo contro il regime con azioni arma­ te. LA SVOLTA In questa chiave si spiega­ no alcune delle più clamo­ rose, recenti svolte. Dopo l'assalto di Al Qaeda alle Torri Gemelle, in partico­ lare, Gheddafi è arrivato ad approvare la guerra Usa contro i Taleban. Nel 2003 dopo alcuni mesi di negoziato segreto con Londra e Washington ha rinunciato allo sviluppo di armi di distruzione di massa nucleari, biologi­ che e chimiche. Infine, giusto una settimana fa il 33enne Saif ai-Isiam Gheddafi, quello degli ot­ to figli che il Colonnello più usa come inviato non ufficiale, ha rilasciato a un giornale austriaco una clamorosa intervista in cui si dichiarava a favore della politica di Bush di esportazione della demo­ crazia. «La mancanza di democrazia comporta la promozione di persone sbagliate in posti chiave», ha detto, pur spiegando comunque che alla Libia ci vorrà ancora parecchio tempo prima di essere in grado di arrivare a una ri­ forma politica pluralista, e che nell'attesa la priori­ tà è per lo sviluppo dell'e­ conomia e gli investimen­ ti stranieri. REGIME INAFFIDABILE D'altra parte, non bisogna neanche dimenticare che Gheddafi è imprevedibile. E lo si vede in particare nel suo tormentato rap­porto col nostro Paese: prima ha espulso i nostri coloni; poi ha favorito i rapporti con le nostre im­ prese costruendo una partnership economia importantissima, ma sen­ za mai smettere di com­ memorare quell'espulsio­ ne e di chiederci cospicui risarcimenti. A un certo punto, al tempo dello scontro militare con Reagan nel Golfo della Sirte, ci lanciò addirittura un missile contro. E più di recente di fronte all'ondata di africani in transito per il territorio libico nel tentativo di imbarcarsi negli scafi dei clandestini verso le nostre coste a vol­ te è sembrato cercare di controllarli, a volte invece ce li ha quasi buttati ad­dosso. Se davvero come ipotizza Magdi Allam die­ tro le manifestazioni ci sono i suoi servizi, allora gli spari della polizia e il relativo bagno di sangue potrebbero essere rubri­ cati in questo tipo di vol­ tafaccia. Ma forse più pro­ babile ancora è che sia stata l'opposizione inte­ gralista clandestina a ten­ tare una prima prova di forza: magari cogliendo al volo proprio le incaute, infelici battute del presi dente del Congresso gene­ rale del popolo.

 

Onore al kamikaze padano. Berlusconi ottiene le dimissioni di Calderoli e fa pace con Gheddafi.
Fini domanda scusa agli islamici e va in visita alla moschea.E l'ex ministro leghista si sacrifica. Ma non si piega.

di Vittorio Feltri

Del 19 febbraio 2006 da Libero

Costatiamo amaramente che hanno già vinto loro, i musulmani fondamentalisti, i violenti. Facile dimostrarlo. Primo. Gli incidenti a Bengasi di ve­ nerdì pomeriggio e sera sono scoppia­ ti per motivi in corso di accertamen­ to. Chi dice per le vignette sataniche uscite in settembre su un quotidiano danese e riprese da France Soire e da altri giornali, chi dice per la maglietta di Calderoli con stampate tali vignet­ te. Negli scontri fra dimostranti che hanno assaltato il Consolato italiano e polizia locale, sono cadute undici per­ sone colpite da arma da fuoco. Tra le vittime, nessun nostro connazionale. Nonostante ciò ovvero mentre ancora si sta cercando di capire l'accaduto, il governo di Centrodestra ha chiesto e ottenuto - con molta prepotenza - le dimissioni del ministro per le Riforme istituzionali. Vattene, è tutta colpa tua, metti a rischio attentati il tuo Paese, sei un irresponsabile. Secondo. Non si rendono conto il Cavaliere e il suo gabinetto che, agen­ do così, d'impeto, senza attendere le risultanze dell'inchiesta (mi auguro ci sarà anche se non approderà a nulla) rivelano una paura fottuta e uno stato di soggezione verso gli aggressori del Consolato. I quali aggressori, dinanzi ai risultati ottenuti con la loro impre­ sa (addirittura il licenziamento di un ministro), sono incentivati a prose­ guire nella politica della forza bruta, bestiale. Menare le mani, incendiare e distruggere paga. Gli occidentali se la fanno sotto e noi ce li mangeremo. Esatta valutazione. Se lo scopo perse guito dai terroristi era sicuramente quello di farci vivere nella paura e di gettarci in ginocchio, be', essi l'hanno raggiunto. Non si era mai visto al mondo un governo silurare un suo mem­ bro per il sol fatto che questi, forse, ha irritato la sensibilità di uomini intol­ leranti capaci di spaccare tutto per una storia di vignette. C'è qualcosa di comico e di sinistro in questo pasticcio provocato dalla tremarella. Un esecutivo si cala le brache per dodici disegni bruttini ma non contrastanti con le nostre leggi, con la Costituzio­ne la quale garantisce il diritto alla li­ bertà di pensiero (in qualsiasi modo espressa) a prescindere da idee politi­ che, fede religiosa, sesso. Calderoli sarà anche un pistola (non lo è) ma subisce una ingiustizia che grida vendetta; pur di cacciar­ lo, i suoi persecutori han­ no fatto strame di un principio basilare e direi costitutivo della nostra democrazia liberale: la li­ bertà di esternare opinio­ ni d'ogni genere. Terzo. D'accordo. Esi­ ste la ragione di Stato, esi­ ste il senso dell'opportu­ nità. Ma rimane l'iniquità del provvedimento con­ tro il ministro orobico: spedito al macero perché sotto la camicia indossa una t-shirt recante l'effi­ gie caricaturale di Mao­ metto. Via, fatemi il pia­ cere. Siete semplicemen­ te ridicoli. Calderoli è un tipo stravagante. Il buon gusto non è la sua carat­ teristica migliore. Spesso ho litigato con lui per cer­ ti suoi atteggiamenti e di­ scorsi indigeribili. Ma se non era adatto a ricoprire ruoli istituzionali non bi­sognava cooptarlo nell'e­ secutivo. Invece è stato preso quale sostituto di Umberto Bossi impedito da malattia. L'avete “as­ sunto” a cuor leggero? Peggio per voi. Liquidarlo oggi per una maglietta; at­ tribuirgli la responsabilità di aver scatenato la rab­bia di bigotti musulmani ventenni è un'idiozia. Di più. Una figuraccia: l'au- tocertificazione di impo­ tenza nella lotta per la prevalenza della civiltà sulla barbarie islamica. Una dichiarazione di re­ sa. Fate di noi quel che volete, ma non la bua. Non toccateci le Olimpia­ di, non disturbate la cam­ pagna elettorale, vi pre­ghiamo: siamo bravi ra­gazzi, pieni di simpatia per Maometto, Allah, le moschee, l'Islam ci piace da morire. Guardate, ab­ biamo stecchito anche Calderoli; però assicura­ teci tranquillità e pace. Qua la mano. Per caso vi stanno sulle palle Maroni e Tremonti? Pronti, ve li regaliamo entrambi. Sgozzateli pure, chisse nefrega. L'importante è che non ci buttiate le bombe. Quarto. La politica del­ la debolezza agevola i pre­ potenti. Li incoraggia nel­ la soperchieria. Vabbé, gli italianucci non capisco­ no. I fatti di Bengasi van­ no comunque interpreta­ ti. Alle diciassette di ve­nerdì un gruppetto di fa­natici, ragazzetti storditi dalle predicazioni e dalle preghiere, si presentano al Consolato su cui sven­ tola la bandiera tricolore. Trascorre un po' di tem­po, e il gruppetto si tra sforma in gruppone. Cin­ quecento, mille, tremila manifestanti. Chi li tiene più? Protestano (dicono) per le vignette sataniche. Appiccano fuoco, tentano di irrompere negli uffici al cui interno stanno sei persone paralizzate dal terrore che rischiano il linciaggio. Miracolosa­ mente le sbarre che forti­ ficano porte e portoni reggono. Ma la spinta del­ la folla imbufalita è pres sante. La polizia ha la sensazione di non con­ trollare più gli eventi e at­ tacca a sparare. Undici cadaveri, forse di più; cin­ quanta feriti. Il prezzo è alto, però non c'era scel­ ta. Il Consolato è malcon­ cio, ma salvo. La manife­ stazione si scioglie. Fra gli “eroi” dell'assalto non ce n'è uno, scommetto, che sappia chi è Calderoli. Transeat. Al governo ita­ liano non par vero di trovare un caprone espiatorio : il ministro naif. Il quale alla fine accetta di adagiarsi sulla graticola. Nel pomeriggio di ieri si dimette. Ovvio. Li aveva addosso tutti, ma proprio tutti. Anche Gianfranco Fini, il quale riesce a sgo­mentarci: va in Moschea a chiedere scusa per la me­ nata della t-shirt di Calde roli. Cose da pazzi. Cose che però fanno godere l'opposizione comunista da sempre fidanzata dei musulmani, dei terroristi, dei guerriglieri, dei resi­ stenti, dei bamba e dei pirla. Quinto . Analizziamo. Perché siamo tanto privi di dignità? A parte la fifa blu degli attentati, consa­ pevoli come siamo con quali signorini abbiamo di mezzo il petrolio e il gas. Allora, Bengasi è la seconda città della nostra ex colonia. La Prima è Tripoli. A Bengasi c'è una massiccia concentrazio ne di oppositori a Ghed dafi, tra cui parecchi gio­ vani. L'attacco al Conso­ lato è anche uno sfregio a Gheddafi che con Berlusconi ha rapporti eccel­lenti, questione di grana, scambi commerciali. Il colonnello ha due problemi: tenere a bada i contestatori, evitandone la crescita di numero; e salvaguardare le intese con l'Italia. Che fare di fronte al casino? La solu­ zione c'è. L'Italia offre ai baluba libici la testa dello screanzato Calderoli, e i baluba si placano mo­ strando al mondo il trofeo padano; Gheddafi fa l'oc­ chiolino al Cavaliere e conferma i patti. Il regime di Tripoli si rinsalda. Fin­ ché dura. Intanto petrolio e gas seguitano a pervenire sul­ la Penisola. E i dollari scorrono. Siamo felici, siamo contenti, le chiap­ pe del cui porgiamo rive renti. Chiaro? Le vignette e la maglietta scema del ministro sono soltanto pretesti idonei alla propa­ ganda; e il popolazzo beo­ ta beve, eccome se beve, sia quello cammellato sia quello motorizzato. Resta il fatto che Calde­ roli, al di là delle sue in­temperanze e infrazioni al bon ton, è una delle ra­ re persone rispettabili in circolazione dalla parte del potere. Così è anche se non vi pare. Non mi verrete a dire che in un Paese in cui la satira, pro­ tetta dall'ipocrisia nazio­ nale, strapazza (col favo­ re della legge) chiunque non di sinistra, dodici di­ segni e una maglietta sia­ no in grado di aprire una crisi internazionale. An­ diamo, per favore.

 

L'ambasciatore ammette: sapevamo che il corteo non era solo per le vignette. Trupiano: «Le frasi di Calderoli sui media arabi». Mercoledì al diplomatico un documento di protesta ufficiale

Del 19 febbraio 2006 da L' Unità

L'ambasciatore Francesco Paolo Trupiano è appena rientrato nella sua residenza dopo aver avuto una serie di colloqui con le autorità libiche e aver «dato un'occhiata» nella ca­pitale. «La città - esordisce - è assoluta­mente tranquilla, qui a Tripoli non vi è al­cun segno di tensione». A Bengasi invece la situazione appare molto diversa: «La polizia ha rafforzato la cintura di sicurezza non solo attorno all'area del consolato, ma in una zona più ampia, nell'intero quartie­re. Il consigliere e i due impiegati che si so­no allontanati venerdì dall'edificio conso­lare sono al sicuro in un edificio presidiato dalla polizia, ma anche ieri non hanno fat­to ritorno nella sede diplomatica». Il bilan­cio delle violenze e del pesante intervento della polizia appare destinato a crescere: «Le vittime - spiega l'ambasciatore Trupiano - sono per ora 11, ma molti feriti versano in condizioni molto gravi». Nelle dichiarazioni rilasciate alle agenzie di stam­pa tra venerdì e ieri mattina, il capo della rappresentanza diplomatica italiana, che mercoledì aveva ricevuto un documento ufficiale di protesta per le affermazioni di Calderoli, era apparso molto cauto nell'indicare i motivi che avevano originato la protesta, ma ieri ha precisato la sua analisi :«La manifestazione di Bengasi era prevista, le autorità ci avevano avvertiti per tempo, secondo le informazioni che erano in nostro possesso - prosegue l'ambasciatore Francesco Paolo Trupiano - doveva trattarsi di una dimostrazione “leggera”. L'iniziativa era stata promossa dal comitati popolari di base. Inizialmente all'origine della protesta vi era la pubblicazione delle vi­gnette su Maometto. Venerdì però, dopo le preghiere, la protesta è proseguita all'uscita delle moschee ed è dilagata in cit­tà. La polizia è intervenuta in forze anche per difendere il nostro consolato. In poche ore la violenza è salita di intensità». È evidente che oltre alla rabbia per la pub­blicazione delle vignette altre ragioni han­no alimentato la protesta. L'ambasciatore, che inizialmente, venerdì sera, non aveva messo l'accento sulla vicenda Calderoli precisa: «a noi era chiaro che da almeno due giorni ai motivi originali se ne erano aggiunti altri. Qui in Libia non si parlava tanto della maglietta del ministro quanto delle sue dichiarazioni. E questo elemento si è aggiunto in un clima già molto caldo e surriscaldato». Come si era diffusa - chie­diamo - la notizia delle prese di posizione del ministro Calderoli? «Moltissimi libici, direi tutti, vedono la televisione italiana che ormai si può vedere anche senza la parabola satellitare che molti posseggono, le trasmissioni più seguite sono quelle sporti­ve ed in particolare il calco, ma vengono seguiti anche i telegiornali. Le dichiarazio­ni del ministro sono state poi riprese e ri­lanciate da tutte le agenzie e dalle emitten­te arabe, da al Arabiya ad al Jazira». Il di­plomatico è reduce da alcuni incontri con le autorità di Tripoli: «Tutti i dirigenti libi­ci con i quali ho parlato - conclude l'amba­sciatore Trupiano - hanno espresso la con­vinzione che non vi saranno ripercussioni nelle relazioni bilaterali con il nostro pae­se. In Libia - dice infine il capo della sede diplomatica italiana - vivono circa mille italiani. In Cirenaica vi sono circa 80 connazionali».

 

Un paese vicino e lontano. Rapporti bilaterali in crisi

di Eric Salerno

Del 19 febbraio 2006 da Il Messaggero

«Noi siamo amici», avrebbe detto il presidente del Consiglio al lea­der libico in una telefonata in cui, verosimilmente, ha anche preannunciato le dimissioni del ministro Calderoli. Ma la verità è che i rapporti tra i nostri due Paesi, a livello di governo, da oltre un anno ormai, non sono più particolarmente amichevoli. Non c'è più un ambasciatore libico a Roma e l'incaricato d'af­fari segue l'ordinaria ammini­strazione. Le commissioni mi­ste non si vedono da qualche tempo, il dialogo bilaterale è praticamente fermo, l'interscam­bio è calato del 25% (anche per colpa della concorrenza spietata di cinesi, coreani e altri paesi asiatici) e il rapporto storico del­la nostra industria degli idrocar­buri sta segnando in passo men­tre decine di compagnie petrolife­re straniere, comprese quelle americane tornate in grande sul­la terra che lasciarono negli anni del boicottaggio hanno ottenuto nuove concessioni e si preparano a estrarre dalla sabbia della Sir­te, e non soltanto, l'oro nero e il gas che arriva direttamente in Italia. Giovanna Ortu, presidente dell'Associazione italiana dei rimpatriati dalla Libia, quei ven-tiduemila “coloni” cacciati da Gheddafi dopo la sua ascesa al potere, parla di «rapporti pessi­mi» che «nel silenzio generale, sono andati via via deteriorando­si negli ultimi mesi». Per un attimo, durante e dopo la visita di Berlusconi in occasione dell' inaugurazione del gasdotto dell' Eni a Mellitah nell'inverno 2004, la relazioni tra i due Paesi sembrarono entrare in una sta­gione felice. Il premier era stato accolto a braccia aperte. Ghedda­fi annunciò la fine della “giorna­ta dell'odio e della vendetta “e la sua sostituzione con quella dell'”amicizia” tra i nostri due popoli. L'odio si riferiva al passato, a quando Tripolitania, Cire­naica e Fezzan furono colonizza­te in una sanguinosa guerra di conquista e sterminio. Qualche volta in modo stru­mentale, altre volte perché fer­mamente convinto della necessi­tà di chiudere con il passato attraverso un riconoscimento delle colpe del colonialismo, Gheddafì ha insistito su un “ge­sto riparatore”. Con Andreotti, molti anni fa, era stata concorda­ta, invano, la costruzione di un ospedale. Di fronte alle telecame­re andate nella Sirte per l'inaugu­razione del gasdotto, una nuova richiesta, fatta a Berlusconi: la costruzione di un'autostrada, dalla Tunisia all'Egitto lungo la costa Mediterranea. Un costo alto, ma secondo molti esperti e diplomatici anche italiani, possi­bile tanto più che avrebbe favori­to le imprese italiane del settore. Berlusconi rientrò in Italia dopo quella fortunata visita che contri­buiva a sdoganare il paria Ghed­dafi avviato verso un nuovo rap­porto con l'Occidente (operazio­ne avviata da Prodi come Com­missario europeo e prima di lui da D'Alema) ma delle richieste libiche non volle più parlare. Gianfranco Fini, allora vicepre­sidente del Consiglio, al silenzio ufficiale del governo aggiunse una dichiarazione sulla “civiliz­zazione della Libia” da parte dell'Italia coloniale. Gheddafì ri­spose per le rime e in un'intervi­sta a Giovanni Minoli sollecitò il leader d'Alleanza nazionale a chiedere scusa ai libici per i crimi­ni commessi durante il fascismo cosi come Fini aveva chiesto per­dono agli ebrei. Purtroppo le in­certezze italiane, l'incapacità di una parte della classe dirigente (l'attuale governo in primo pia­no) di riconoscere apertamente e con iniziative pubbliche sia in Libia che in Italia ciò che l'Italia di Giolitti, prima, e fascista poi, fece sull'altra sponda del Medi­terraneo continua a pesare nega­tivamente sui rapporti fra Tripo­li e Roma.

 

Pera: «Sì al dialogo con l'Islam ma solo in condizioni di parità»

di Antonio Signorini

Del 19 febbraio 2006 da Il Giornale

«Credo che sia un atto, finalmente, di responsabilità, dopo un comportamento che ho giudicato inaccettabile». Marcello Pera ha deluso chi si aspettava da parte sua una qualche forma di sostegno all'ex ministro delle Riforme Roberto Calderoli, magari in nome della battaglia contro il relativismo culturale e per l'affermazione dei valori occidentali. La condanna della maglietta con la riproduzione delle vignette danesi che raffigurano Maometto è chiara e le dimissioni del ministro leghista che l'ha indossata mostrandola in televisione, secondo il presidente del Senato, sono la scelta giusta. «La partita politica, l'aspetto politico ora è chiuso, con soddisfazione di tutti», è stato il commento della seconda carica dello Stato, nel corso di un'affollata presentazione, a Firenze, del libro del Papa L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture , del quale ha curato l'introduzione. Il riferimento alla soluzione voluta da tutti è al premier Silvio Berlusconi che aveva invitato Calderoli a dimettersi prima che scoppiassero gli incidenti il Libia. Chiuso il caso politico, «si apre un'altra vicenda che dobbiamo affrontare. Noi siamo per il dialogo con l'Islam, con i Paesi arabi, e con quelli islamici, con cui abbiamo eccellenti rapporti». Ma il confronto «si può svolgere solo in condizioni di parità e di reciprocità ». E quindi, «non si può rispondere a delle camicette ancorché irridenti o inaccettabili con dei morti, degli assalti ai consolati. Non si può rispondere a delle vignette con assalti ad ambasciate europee, non si può rispondere a una vignetta con il martirio di un prete cattolico». Per il presidente del Senato, «solo in condizioni di dialogo e parità» queste tensioni «potranno essere superate. Noi vogliamo parlare con gli altri - ha proseguito - noi vogliamo mantenere, naturalmente la difesa della nostra civiltà e delle nostre radici giudaico-cristiane». Insomma, «censuro senza riserve la camicetta volutamente provocatoria e inaccettabile di un ministro che preferisce irridere piuttosto che pensare. Quel comportamento non ha giustificazioni e il partito di quel ministro ha coltura sufficiente per comprenderlo. Ma la risposta adeguata non sono le sollevazioni e i morti». Al di là del caso Calderoli, Pera non rinuncia alla sua posizione di liberale laico, convinto però che l'identità dei popoli sia da ricercare anche nella fede.Eche la civiltà occidentale abbia dato vita a sistemi politici più giusti. «Meglio strumenti di censura che le condanne a morte a furor di popolo. La nostra libertà di opinione e di stampa, ha dei limiti», e per stabilire quando questi vengono superati «abbiamo tribunali indipendenti, censure politiche e parlamentari, giudizi di una stampa pluralistica - ha aggiunto - critiche delle opinioni pubbliche e libero voto dei cittadini ». Si tratta di strumenti che possono essere anche «di censura »,ma che certamente sono meglio della pena capitale. Nel corso della presentazione, l'intervento di Pera e quello di monsignore Rino Fisichella, rettore della Pontificia università lateranense, sono stati interrotti da numerosi applausi. Una standing ovation ha accolto il nome di papa Benedetto XVI, autore del volume. Particolarmente apprezzata una parabola raccontata da Fisichella e tratta da Introduzione al cristianesimo , scritta dallo stesso Ratzinger. Parla di un incendio scoppiato in un circo danese a causa di una bandiera bruciata. Un pagliaccio scappa dalle fiamme e raggiunge il vicino villaggio per dare l'allarme e chiedere aiuto, ma nessuno gli crede. Più racconta la vicenda e meno gli abitanti sono disposti a prenderlo sul serio. Inquietante il finale: il fuoco raggiunge l'abitato e il villaggio va in fiamme senza che nessuno abbia alzato un dito per evitarlo.

 

Il fanatismo e' cosa loro

di Mario Cervi

Del 19 febbraio 2006 da Il Giornale

Le dimissioni del ministro Calderoli sono state qualcosa di più d'un atto dovuto. Sono state la giusta sanzione d'un comportamento che sarebbe stato irresponsabile anche qualora avesse avuto le connotazioni della goliardata spavalda: ma che purtroppo ha dato l'impressione d'obbedire anche a meschine esigenze di propaganda elettorale. Molti italiani che simpatizzano per la Casa delle libertà, ma non per certe sceneggiate clamorose, si augurano che questa vicenda serva da lezione a quanti, nella Lega o altrove, hanno fatto uso e abuso di atti edi detti truculenti. Calderoli ha avuto ciò che da tempo meritava, e che è diventato inevitabile dopo lo spargimento di sangue causato dalle manifestazioni di Bengasi. Si va spesso ripetendo in queste ore che un personaggio cui è stato affidato un incarico pubblico di primaria importanza deve agire, soprattutto in momenti critici, nell'interesse del Paese: anche a costo di far forza alle sue pulsioni, istintive o calcolate che siano. Il governo nega la teoria catastrofista dello scontro di civiltà, e ha a mio avviso ragione sia dal punto di vista dell'opportunità sia dal punto di vista della sostanza. È vero che in Turchia esistono fermenti fondamentalisti, ma è anche vero che l'assassino di don Andrea Santoro è stato assicurato prontamente alla giustizia. È vero che i predicatori della guerra santa contro l'Occidente imperversano nell'Islam, ma è anche vero che alcuni capi di Stato islamici sono tra i loro bersagli prediletti. La visita di Fini alla moschea di Roma è stata un gesto riparatore. Il «lungo e amichevole» colloquio telefonico di Berlusconi con Gheddafi ha avuto lo stesso significato: restando inteso che il colonnello libico non è un angioletto. Ciò premesso mi pare si stia delineando sulla vicenda Calderoni una posizione che è insieme ipocrita ed equivoca. Sembra cioè che lo sberleffo esibizionista di Calderoli e magari anche alcune opinioni severe sull'Islam legittimino le violenze, gli urli, le minacce (con apposita fatwa mortale) del clero musulmano: e che non i ministri o dignitari della Repubblica, ma anche i comuni cittadini, debbano tapparsi la bocca se viene loro voglia di criticare Maometto, o l'aspetto luttuoso e penoso delle donne col burka, o i progetti nucleari del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, o i deliri di folle oceaniche alla Mecca. Calderoli doveva essere più attento, e non rifugiarsi, dopo i guai, nel solito alibi delle «vergognose strumentalizzazioni ». Ma l'Occidente, Italia inclusa, deve tutelare graniticamente quelle libertà fondamentali che sono il suo orgoglio (e in alcune circostanze, ammettiamolo, anche il suo fardello). Le cancellerie devono muoversi con la prudenza che è nei loro compiti. E tuttavia nessuna prudenza è concessa - neppure nel nome dei buoni rapporti internazionali e per ossequio a sensibilità e ipersensibilità di massa- quando si tratta di difendere il nostro diritto di esprimere opinioni, di muovere obbiezioni, insomma di essere cittadini liberi in un Paese democratico. La religione cattolica ha subìto, nella cattolica Italia, innumerevoli attacchi e accuse. Si può non condividerli, e deplorarli. Non si può vietarli, ameno che costituiscano reato. Il che vale, è evidente, anche per le «vignette sataniche» danesi, a mio avviso non divertenti né da usare come canottiera. Ma non è questo che conta. I tumulti di Libia o d'altri Paesi islamici vanno iscritti nel grande libro del fanatismo. Cosa loro, non cosa nostra.

 

Ma il «caso Calderoli» ha fornito all'integralismo l'occasione di provocare una crisi nel riavvicinamento in corso tra i due Paesi

di Alberto Pasolini Zanelli

Del 19 febbraio 2006 da Il Giornale

Forse non è stata una sorpresa che l'esplosione di fanatismo in corso nel mondo islamico investisse, prima o poi,anche l'Italia. Certamente non lo è che un nuovo «fuoco delle violenze si sia localizzato Libia, dove il dittatore Muammar Gheddafi (che pure è anch'egli un integralista islamico a forti tinte verde Profeta) è da anni sotto il tiro Qaida e di altri gruppi estremisti. Non è improbabile, infine, che le due spine irritative delle violenze l'altro giorno a Bengasi ci sia rapporto più che casuale. relazioni fra Italia e Libia, che sempre state difficili dopo l'instaurazione della dittatura, hanno preso da alcuni anni una direzione nuova, più complessa e positiva. è, o non dovrebbe essere, un segreto per nessuno che il governo Berlusconi abbia «lavorato» piuttosto fondo per aiutare, soprattutto psicologicamente, il governo di Tripoli a effettuare la sua svolta strategica, che non consiste soltanto nella rinuncia ai progetti nucleari ma anche in un più equilibrato atteggiamento nei confronti dell'Occidente in genere. Il presidente Bush ha citato più volte il ritrovato dialogo con Tripoli come uno dei più importanti effetti collaterali dell'impegno militare Usa in Irak; e tale affermazione, pur nel suo contesto in parte propagandistico, non è priva di fondamento. L'avere mostrato il bastone altrove ha permesso agli Usa di avanzare la carota in Libia, ottenendo molto di più con uno sforzo minimo. Quel che è meno noto è che quella carota in buona parte l'abbiamo cucinata noi. Berlusconi in persona ha condotto per anni una politica di iniziative di «recupero » di Gheddafi, certamente coordinate con quelle di Washington, ma certamente almeno in questo caso non subordinate. Ogni riavvicinamento, o anche semplice avvicinamento, richiede una qualche sorta di mediazione, che il governo di Roma ha fornito con impegno, sensibilità e successo. Le numerose visite del nostro primo ministro a Tripoli e l'apparente cordialità degli incontri con Gheddafi non sono che l'aspetto più vistoso, che ricopre una realtà più solida: c'erano cose che Roma e Tripoli dovevano fare come premessa politica e psicologica al «disgelo» libico nei confronti di tutto l'Occidente. Ricucitura di vecchie lacerazioni bilaterali,ma anche iniziative come il progetto di Berlusconi di una mediazione libica per scongiurare la guerra in Irak, magari includendo un salvacondotto per Saddam Hussein per un pensionamento in Libia a patto che lasciasse pacificamente il potere a Bagdad. Questa a grandi linee la strategia che si trova ora sotto attacco per un complesso di motivi non tutti correlati. A parte il comportamento poco ortodosso di Calderoli, è evidente la volontà di qualcuno di saltare sull'occasione per provocare una crisi di cui l'Italia è bersaglio ma forse non il principale. Non è probabilmente neppure un caso che l'assalto alla rappresentanza diplomatica sia avvenuto a Bengasi, capitale della Cirenaica, che è, per antica tradizione che risale ai Senussi, il focolaio dell'estremismo fondamentalista.

 

Il regime incassa l'uscita del leghista ma cerca di spegnere la rabbia delle famiglie delle vittime con un riconoscimento

di Guido Ruotolo

Del 19 febbraio 2006 da La Stampa

«L'annuncio delle dimissioni del ministro Calderoli è una notizia che aiuta a rasserenare gli animi, la nostra gente capirà. Avevamo già fatto presente al governo italiano che la sua ultima intervista, nella quale invocava una nuova crociata contro l'Islam, avrebbe infuocato gli animi. Seif al Islam Gheddafi (figlio del leader libico, ndr) aveva chiesto allora le sue dimissioni per raffreddare il clima, per disinnescare la bomba. Ed era tornato a chiederle ieri mattina (accusando il ministro leghista di «azioni provocatorie e oltraggiose», ndr). Ma fino ai fatti di Bengasi. Roma non ha voluto dare seguito alle nostre richieste, sottovalutando le implicazioni che avrebbero comportato». L'autorevole fonte diplomatica libica rompe il silenzio. Dopo i fatti di Bengasi, l'assalto al consolato italiano e anche alla chiesa della città, il cui portone è stato bruciato, ieri mattina il Congresso generale del popolo (il parlamento libico) ha defenestrato il ministro dell'Interno, Nasser el Mabrouk, accusandolo di «ricorso eccessivo della forza». Il Congresso del popolo, che ha annunciato che anche tutti gli altri responsabili della sicurezza di Bengasi sono finiti sotto inchiesta - per oggi è stato proclamato il lutto nazionale -, ha rivolto un saluto e un omaggio alla «memoria dei nostri martiri», le undici vittime degli scontri davanti al consolato italiano (tra i feriti, cinque sono in condizioni drammatiche). L'iniziativa del Congresso del popolo dovrebbe aiutare a far sbollire la piazza, e va interpretata, secondo la nostra autorevole fonte diplomatica, proprio come tentativo di «sanare» la ferita di Bengasi. Tra l'altro il riconoscimento dello status di martiri consentirà alle famiglie delle vittime di avere un trattamento di favore. Nella cultura non scritta libica, araba, c'è la legge della «vendetta». Di fronte alla morte, i parenti delle vittime devono essere in qualche modo risarciti, devono sentirsi appagati, avere insomma giustizia. Tripoli spera che nella «città dei beduini, dei forti legami di appartenenza alle tribù», le dimissioni e il processo ai responsabili della repressione dell'altra sera possa essere sufficiente a chiudere l'incidente. C'è stato chi, in queste ore, ha commentato i fatti di Bengasi addossandone la responsabilità al leader Gheddafi: «E' assurda questa interpretazione - è la risposta del diplomatico libico -, perché avremmo dovuto istigare alla rivolta e poi reprimerla con un bilancio mai visto prima nella storia della rivoluzione libica: undici morti per strada?». Si infervora la fonte: «Le nostre forze dell'ordine sono state costrette ad aprire il fuoco forse per paura e inesperienza, sicuramente per difendere l'unica sede diplomatica occidentale a Bengasi, per giunta la sede di un paese amico come l'Italia». Nelle parole del diplomatico si coglie la massima disponibilità nei confronti di Roma, anche se loro, i libici, ritengono che Roma non abbia ancora risolto il contenzioso aperto, il risarcimento per il periodo coloniale italiano. Le relazioni tra i due Paesi sono filtrate attraverso il nostro ministro dell'Interno, Beppe Pisanu, che ha un rapporto diretto con il leader Gheddafi, che ieri pomeriggio ha avuto un colloquio con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Tripoli per protesta per gli impegni assunti e non mantenuti dal nostro governo, ha ritirato il suo ambasciatore a Roma. «Se non si fosse dimesso il ministro Calderoli - rivela la nostra fonte - le relazioni diplomatiche e commerciali tra i due Paesi sarebbero ulteriormente entrate in crisi». Il diplomatico insiste nel presentare il suo paese come islamico e tollerante. Ricorda la presenza di una comunità cattolica che ha il suo vescovo e che non ha mai subito discriminazioni. E che tra il «World Islamic Call Society» (Wics), la Fondazione mondiale degli islamici moderati, e il Vaticano i rapporti sono solidi dal 1972, quando fu fondato il «Wics». «In queste settimane - rivela la nostra fonte - vi sono state due manifestazioni di protesta. La prima, l'altro venerdì, contro le dichiarazioni del ministro Calderoli, la seconda, ieri sera (l'altra sera, ndr), contro la maglietta del ministro». Secondo fonti istituzionali italiane, dopo la preghiera del venerdì, quando in migliaia lasciando la moschea si sono diretti al consolato italiano, il corteo sarebbe stato strumentalizzato da un gruppetto di una trentina di «provocatori», che avevano portato in piazza una bandiera danese da bruciare. Che a Bengasi, città così vicina all'Egitto, possa essere radicato qualche gruppo integralista islamico? Il diplomatico libico esclude questa possibilità: «I radicali, i terroristi non scenderebbero mai in piazza con il rischio di farsi arrestare. La manifestazione è stata spontanea, la collera però è degenerata». Intanto, le forze di sicurezza libica hanno proceduto ad arresti. Oggi, in occasione dei funerali delle vittime degli scontri di venerdì si capirà se la situazione è tornata di nuovo sotto controllo.

 

Vignette e proteste islamiche

di Andrea Lavazza

Del 19 febbraio 2006 da Avvenire

I simboli, e i simboli religiosi in particolare, hanno a che fare con i nostri valori e la nostra identità, perciò sono una materia incandescente. Trattarli con leggerezza conduce inevitabilmente a qualche esito negativo, o perlomeno imprevedibile. I vignettisti e il giornale che ha pubblicato i disegni ritenuti offensivi del profeta Maometto non pensavano, nella laica Danimarca, che qualcuno si potesse adontare per una caricatura. Davanti alle violenze dei manifestanti nel mondo islamico, un ministro ha ritenuto di indossare una maglietta che quella satira riproduceva per affermare in modo provocatorio la propria costellazione di convinzioni, senza valutarne le nefaste conseguenze. Lo stesso terrorismo, quello che ha ucciso anche don Andrea Santoro in Turchia, colpisce simboli, cercando di intimidire e indurre alla resa. Rispetto e responsabilità paiono allora la risposta più giusta e adatta per trattare quell'incipiente scontro di civiltà che qualcuno già intravede in Europa e in Asia. Rispetto per tutte le fedi e le loro manifestazioni pubbliche, rispetto per le sensibilità personali e collettive dei credenti, rispetto per ciò che costituisce patrimonio sacro e inviolabile. Responsabilità significa valutare le possibili ricadute dei propri atti, sapere che nessun gesto politico è immune da reazioni di qualche segno, avere la consapevolezza che quando si rappresentano altri non si può dare libero sfogo alle proprie idiosincrasie. (Tutte cose che Calderoli ha dimostrato colpevolmente di ignorare, condannandosi alla meritata onta delle dimissioni). Ciò però che rende così acuta la crisi che stiamo vivendo in questi giorni è l'apparente difficoltà di trovare un equilibrio tra il doveroso rispetto e il ricatto minaccioso esercitato dalle piazze inferocite. Meglio sarebbe stato non turbare la sensibilità di tanti musulmani con un'inopportuna rassegna di vignette blasfeme, ma può un episodio circoscritto, per il quale sono state porte scuse ufficiali, giustificare boicottaggi, assalti e incitazioni all'omicidio degli autori? Più grave è che un rappresentante governativo abbia volontariamente reiterato l'offesa (nella parziale inerzia di colleghi e opposizione), mettendo a repentaglio la sicurezza di connazionali all'estero. Nessuno avrebbe potuto eccepire a una vibrata protesta diplomatica, a un pacifico sit-in davanti alla nostra ambasciata (come si è fatto a Roma dopo le inaccettabili dichiarazioni antisemite del presidente iraniano Ahmadinejad), diverso è dare l'attacco al consolato di Bengasi, in cui verosimilmente i nostri sei funzionari avrebbero avuto la peggio. Calderoli è stato, tardivamente, costretto a lasciare; Berlusconi e Fini hanno cominciato subito una difficile opera di ricucitura con la Libia e con l'intero mondo islamico. Eppure sappiamo bene che gli incendi non si placheranno facilmente. Mentre è giusto ricordare i caduti degli scontri di venerdì, altre folle, forse abilmente incitate da chi ha interesse a soffiare sul fuoco, si mobiliteranno contro obiettivi italiani e occidentali. Per quanto resteremo dalla parte del torto? Niente magliette per i politici, certo; e d'ora in poi qualche attenzione in più a ciò che si pubblica. Abdicare a libertà d'espressione e di critica è però un prezzo troppo alto. E sullo stesso terreno del culto, dov'è la reciprocità di trattamento per i cristiani, spesso vessati o costretti al silenzio? Se da un lato si impone la cautela motivata dalla volontà di non provocare ulteriori tensioni, dall'altro non possiamo nasconderci che parte della protesta è guidata da una regia fondamentalista e che farci troppo timidi non gioverà nemmeno alla causa del rispetto e della responsabilità. Da questa dolorosa vicenda dobbiamo imparare che svilire i simboli, nostri e altrui, non porta mai lontano. L'equilibrio della serena convivenza non sarà tuttavia un approdo facile. E non è detto che sia sempre colpa dell'Occidente.

 

Roma-Tripoli, un secolo sofferto di guerre e di affari

di Emiliano Bos

Del 19 febbraio 2006 da Avvenire

Dalla repressione della rivolte in Cirenaica durante il Ventennio ai missili di Gheddafi affondati a poche miglia da Lampedusa a metà degli anni Ottanta: passa per gli umori della Storia il controverso rapporto tra Italia e Libia. Quasi un secolo fa iniziava l'occupazione delle coste delle allora province di Tripolitania, era il sogno coloniale dell'"Italietta giolittiana". Tra le pagine degli altalenanti rapporti tra Roma e Tripoli, restano anche quelle oscure dei bombardamenti sulla resistenza libica durante l'occupazione fascista. Oppure deportazioni e uso di armamenti proibiti, come gli ordigni a iprite contro la popolazione civile. La Libia, uno "scatolone di sabbia" l'aveva definita Francesco Saverio Nitti in Parlamento nel 1911, era stata invasa nei secoli da fenici, greci (che per primi chiamarono Libia le terre al di là del fertile Nilo), romani, bizantini, arabi, normanni, spagnoli, turchi. Poi arrivarono gli italiani. Ed era stata lasciata dagli italiani la mina che ferisce l'adolescente Muammar Gheddafi e uccide un suo cugino. Figlio di beduini analfabeti, l'uomo destinato a prendere le redini del Paese percorre brillantemente la carriera militare: nel 1969 - mentre il sovrano Idris I si trovava in Turchia - conquista il potere diventando a 27 anni il più giovane capo di Stato del pianeta. La Rivoluzione verde, sotto l'influenza dell'egiziano Nasser, trasforma il regno libico in Repubblica socialista. Che ha la fortuna di galleggiare su enormi giacimenti di oro nero. Che diventa il carburante dell'economia e delle riforme volute dal colonnello, pagate - insieme ai rinnovati arsenali - con gli abbondanti petrodollari. Negli stessi anni l'Eni sbarca in Libia e da allora, malgrado periodi di relativo isolamento internazionale del regime di Tripoli, il cordone ombelicale petrolifero con Roma non sarà più interrotto. Nemmeno quando, nel 1970, Gheddafi espropria i beni degli italiani e ne espelle ventimila, ma non l'Eni né la Fiat, di cui poi rileverà una quota. Quell'episodio diventa addirittura una controversa "giornata della vendetta" contro la repressione coloniale, un appuntamento annuale derubricato dal calendario due anni fa ma reintrodotto nel 2005. Negli anni Ottanta i rapporti con l'Italia risentono del clima internazionale, quando Gheddafi diventa «l'uomo più pericoloso del mondo». Anche perché nel 1980 viene ritrovata la carcassa di un aereo Mig-23 libico in Calabria, a 20 giorni dalla tragedia di Ustica. Pochi anni dopo gli Usa bombardano la residenza del Colonnello. Che si salva. E torna lentamente in primo piano, diventando uno dei padri dell'Unione africana. Fine dell'isolamento, Gheddafi "rinasce" a nuova vita e l'Onu annulla le sanzioni introdotte anni prima. Di verde, a parte la Rivoluzione, oggi rimane soprattutto il Green Stream che dovrebbe pompare verso l'Italia otto miliardi di metri cubi di gas.

 

La via pericolosa dell'Islam e i nostri silenzi

di Ernesto Galli della Loggia

Del 19 febbraio 2006 da Corriere della Sera

Intanto cominciamo a convincerci—lo ha scritto ieri Magdi Allam — che le famigerate vignette antiislamiche c'entrano abbastanza poco con la bufera antioccidentale che da settimane sta soffiando dal Pakistan a Bengasi. Certamente quelle vignette hanno offeso milioni di credenti, ma esse hanno rappresentato solo un pretesto, sono state usate puramente come un'esca per scatenare violenze e disordini (il che non attenua, ma semmai aggrava, le responsabilità di chi come il ministro Calderoli non ha capito o, se ha capito, ha abboccato all'esca sperando in una manciata di voti in più). Sono almeno due le ragioni che inducono a dubitare fortemente della spontaneità dei moti di piazza nelle capitali islamiche. Innanzi tutto le notizie che si hanno del complesso lavorio (durato almeno tre mesi dalla pubblicazione delle vignette alle prime manifestazioni) messo in opera dai capi della comunità islamica danese al fine di attivare i canali di mobilitazione che poi sono entrati in azione; e in secondo luogo l'ovvia complicità dei governi nei disordini, disordini avvenuti perlopiù in Paesi dove neppure un capannello di poche persone può riunirsi senza che la polizia lo sappia in anticipo, potendo così intervenire (o non intervenire) a suo piacere. Dunque disordini preparati e voluti , ma non perciò meno gravemente rivelatori. L'estrema violenza e la rabbia cieca delle manifestazioni, la loro estensione e il loro ripetersi continuo, la partecipazione ad esse di una moltitudine di giovani, sono la spia che oggi nel mondo islamico si sta diffondendo, si è già diffuso, un virus cultural-religioso e politico dagli effetti incontrollabili, di cui la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi e i proclami atomico-antisemiti di Ahmadinejad sono un'ulteriore e preoccupantissima prova. Che cosa sta succedendo tra quelle centinaia di milioni di uomini governati da regimi deboli e dispotici? Molta parte della scena ci rimane oscura, dominata dalla mancanza di libertà e quindi dal segreto, ma ne vediamo gli effetti: una sfera politica caratterizzata dalla demagogia e dall'incapacità di avviare qualunque vera riforma, una sfera sociale priva di qualsivoglia guida alla discussione razionale (giornali e tv indipendenti, intellettuali di orientamento liberale, scienziati), con un'altissima propensione al fanatismo religioso, indisponibile a riconoscere alcun diritto a chi pensa o vive diversamente, con una paurosa accettazione della violenza, e alla quale, infine, è possibile far credere che l'Occidente sia responsabile di ogni cosa. Noi europei ci stiamo rapidamente abituando a tutto ciò , non ne scorgiamo più l'assoluta anomalia. Timoroso dell'accusa di leso multiculturalismo, il nostro discorso pubblico non osa più esprimere giudizi che non siano di comprensione, di più o meno tacita «tolleranza», verso qualunque intollerabile violenza o malefatta commessa nelle contrade dell' Islam. Ad una folla polacca o irlandese non perdoneremmo neppure un centesimo di quello che siamo pronti a perdonare ad una folla libica o afghana: ma ci va bene così. Dando un esempio stupefacente di viltà l'Unione Europea non ha espresso una protesta vigorosa neppure quando è stata devastata la sua sede a Gaza da una folla di quegli stessi palestinesi che vivono solo grazie agli aiuti di Bruxelles. Nulla sembra scuoterci, insomma: non solo non vogliamo accorgerci della via pericolosa che l'Islam ha imboccato, ma, quel che è peggio, sembriamo aver perfino paura di parlarne.

 

Ma la vera blasfemia è nei simboli degli estremisti

di Magdi Allam

Del 19 febbraio 2006 da Corriere della Sera

E' stato un attacco preannunciato contro il nostro consolato a Bengasi. Erano giorni che Gheddafi aizzava la piazza contro Calderoli colpevole di aver promosso una «nuova crociata contro l'Islam». Ma anche contro l'Italia perché «non vuole chiudere con il passato fascista». Il governo Berlusconi era al corrente dei seri rischi a cui andava incontro. Eppure il ministro leghista si è prestato ad innescare la miccia che ha dato fuoco alle polveri, rifiutandosi di recedere dall' ostentazione delle magliette con le vignette su Maometto ritenute blasfeme. Ed ora che si fa la conta dei morti e dei feriti, le responsabilità sono chiare. E di un regime tirannico possa essere messo in discussione, le dimissioni del nostro ministro sono a questo punto assolutamente doverose. C'era da attenderselo che l'Italia avrebbe finito per pagare proprio con la Libia il suo conto nella vicenda delle vignette blasfeme. L'ex colonia è una spina nel fianco da quando nel 1970 Gheddafi espulse in massa i ventimila italiani che vi risiedevano da generazioni, sequestrando tutte le loro proprietà. Ieri la televisione libica ha dato ampio risalto al discorso fatto dal presidente del Congresso generale del popolo (il Parlamento), prima dell'attacco al nostro consolato, in cui ha tuonato: «Dobbiamo riaprire il dossier con l'Italia. Il Congresso chiede la rottura delle relazioni con l'Italia. E' arrivata l'ora in cui è il popolo che deve agire contro le vignette che irridono il nostro profeta e contro il ministro delle Riforme italiano che ha lanciato una nuova crociata contro l'Islam». Chi è stato in Libia sa bene che nessuno si sognerebbe mai di sfilare in corteo e tantomeno di attaccare una sede diplomatica se non glielo ordina il regime. Le poche immagini trasmesse enfatizzano una rara collera diffusa tra le migliaia di persone che hanno manifestato a Bengasi, urlando «con il sangue, con lo spirito, ci sacrificheremo per te oMohammad(Maometto) ». Che il presidente del Parlamento libico abbia strumentalizzato l'atteggiamento di Calderoli appare evidente dalle sue dichiarazioni: «Il ministro italiano ha chiesto al Papa di indire una nuova crociata contro l'Islam, vuole usare la forza contro l'Islam. Vogliono innalzare la croce nella terra dell'Islam. Noi diciamo no. La Nazione islamica è sana nonostante la collusione di taluni. Gheddafi è pronto a guidarla. In passato gli aggressori fascisti si erano illusi di sottometterci, quando avevamo poche armi ma tanta fede. Ora la Storia si ripete. Pensavamo che l'Italia fosse cambiata.Mada sotto le ceneri emerge un'Italia che vuole riesumare il passato. Fino ad ora non ci vogliono indennizzare per le vittime e i danni coloniali ». Si tratta di un annoso contenzioso che Gheddafi fa riemergere a piacimento per usarlo come clava quando decide di infierire contro l'Italia. Aumentando ogni volta la posta, anche se per il nostro Paese quel contenzioso è chiuso. A ottobre di ogni anno Gheddafi celebra la «Giornata della vendetta» contro l'Italia, un giorno di lutto in cui si rievocano le atrocità della guerra fascista per mantenere vivo l'odio e il risentimento nei confronti degli italiani. Anche se poi la Libia e l'Italia hanno uno stretto e intenso rapporto economico e commerciale, in cui la parte del leone la fanno le esportazioni di petrolio e gas libico. E' in questo contesto di per sé problematico, nonostante l'intenso lavoro diplomatico svolto dal ministro dell'Interno Pisanu per contenere il flusso dei clandestini, che è esploso il caso Calderoli sfociato nell'attacco mortale contro il nostro consolato. Non tenerne conto sarebbe fuorviante. Il ministro leghista è certamente colpevole di aver assunto, mantenendo un incarico ufficiale, un atteggiamento provocatorio che ha finito per coinvolgere la responsabilità del governo e mettere in pericolo la sicurezza delle istituzioni italiane. Ma l'esplosione di violenza era già stata decisa. Gheddafi attendeva solo il pretesto. Calderoli glielo ha offerto.

 

Falso il dolore del colonnello Tripoli ha soffiato sul fuoco

di Gianna Fregonara

Del 19 febbraio 2006 da Corriere della Sera

ROMA - «Il ministro Calderoli se ne doveva andare da quel dì, e non perché è volgare bensì per precise responsabilità politiche». Ma il problema dei rapporti con la Libia ha altre origini e un tarlo di fondo: «Attratti dal gas e dal petrolio libico, ci siamo comportati come affaristi, chiudendo gli occhi di fronte alle libertà e ai diritti negati». Dopo la sanguinosa rivolta di Bengasi Emma Bonino, che nel mondo islamico è stata a lungo, ammonisce: «E' importante capire bene che cosa succede in Libia, perché se sbagliamo analisi continueremo a sbagliare politica». Cioè quella attuale delle porte aperte al vicino di casa Gheddafi è sbagliata? «Parto da alcuni dati di fatto. A Bengasi, come è successo per altro in Iran e in Siria, non si muove foglia che il regime non voglia. Quindi il rammarico di Gheddafi per i sanguinosi episodi suona un pochino in malafede, per non parlare della sospensione del ministro degli Interni. Come dice Magdi Allam, il presidente del Parlamento di Tripoli ha soffiato sul fuoco da subito, e la Libia non dimentichiamo è stata il primo Paese a chiudere l' ambasciata in Danimarca Insomma tanti segni premonitori di voler cavalcare la situazione post vignette». Gheddafi non è certo tollerante con gli integralisti ... «Anzi, è sempre stato ostile ai Fratelli musulmani ma per ragioni interne. Ma l' Islam l' ha usato spesso e per motivazioni tutte politiche o nazionaliste». Gheddafi manda un segnale: può "manovrare" le masse islamiche estremiste? «Se un regime vuole una manifestazione pacifica, sa come fare. Siamo noi occidentali che attratti dal gas e dal petrolio libico ci siamo comportati da affaristi con Gheddafi». Cioè? «E' bastato che Gheddafi riconoscesse di essere il mandante della strage di Lockerbie e dell' attentato dell' aereo sul Ciad e decidesse di pagare le vittime perché le democrazie occidentali si mettessero in fila per bussare alla porta di Tripoli, dagli Usa a Blair, da Chirac a Berlusconi, pronti ad ammansire un dittatore. Siamo arrivati all' assurdo di accettare il rito tribale di Gheddafi, il cosiddetto "riscatto del sangue", ovvero i soldi che l' assassino paga alla famiglia della vittima per essere prosciolto. Fino ad accettare che la Libia presiedesse la commissione Onu per i diritti umani. Ora Gheddafi ci dice: o Calderoli se ne va o basta gas libico». Un ricatto? «Un segnale, che può avere contenuti anche più vasti. Del resto mai una volta che abbiamo chiesto più libertà, più rispetto per i diritti civili e umani per i libici, che abbiamo sollevato interrogativi sulle tante crudeli "stranezze" del regime». Calderoli se ne va, ma l' incidente non sembra chiuso. «Se ne doveva andare da quel dì, insieme con altri suoi colleghi razzisti, anche perché il florilegio d' invettive era davvero diventato troppo lungo e insopportabile - dalle pantegane islamiche di Borghezio, alla giornalista palestinese "abbronzata" di Calderoli, allo sterco di fronte alle moschee, alla castrazione biologica - e doveva farlo non perché è incivile ma per precise responsabilità politiche». Cioè non è un problema di "leggerezza" di Calderoli? «No, tutta la Lega lo sostiene e Calderoli dice di aver fatto tutto questo per difendere i valori occidentali, quelli che ogni giorno la Lega denigra e calpesta con linguaggio violento e dozzinale. La questione investe chi ha imbarcato la Lega al governo e continua a mantenerla (in tutti i sensi) Mi auguro che gli elettori il 9 aprile girino pagina». Ma con Prodi la politica estera verso la Libia non dovrebbe cambiare molto. «Mi auguro invece di sì. La Rosa nel Pugno propone di rafforzare la Community of democracies, di creare un consiglio dei diritti umani credibile e non infiltrato da dittatori, di aumentare i rapporti con i Paesi a prevalenza musulmana che tentano un' altra strada e di avviare una politica di integrazione per gli individui e i loro diritti e doveri».

 

La miccia e il pretesto

di Magdi Allam

Del 18 febbraio 2006 da Corriere della Sera

E' stato un attacco preannunciato contro il nostro consolato a Bengasi. Erano giorni che Gheddafi aizzava la piazza contro Calderoli colpevole di aver promosso una «nuova crociata contro l' Islam». Ma anche contro l' Italia perché «non vuole chiudere con il passato fascista». Il governo Berlusconi era al corrente dei seri rischi a cui andava incontro. Eppure il ministro leghista si è prestato ad innescare la miccia che ha dato fuoco alle polveri, rifiutandosi di recedere dall' ostentazione delle magliette con le vignette su Maometto ritenute blasfeme. Ed ora che si fa la conta dei morti e dei feriti, le responsabilità sono chiare. Ebbene, se è impensabile che il leader di un regime tirannico possa essere messo in discussione, le dimissioni del nostro ministro sono a questo punto assolutamente doverose. C' era da attenderselo che l' Italia avrebbe finito per pagare proprio con la Libia il suo conto nella vicenda delle vignette blasfeme. L' ex colonia è una spina nel fianco da quando nel 1970 Gheddafi espulse in massa i ventimila italiani che vi risiedevano da generazioni, sequestrando tutte le loro proprietà. Ieri la televisione libica ha dato ampio risalto al discorso fatto dal presidente del Congresso generale del popolo (il Parlamento), prima dell' attacco al nostro consolato, in cui ha tuonato: «Dobbiamo riaprire il dossier con l' Italia. Il Congresso chiede la rottura delle relazioni con l' Italia. E' arrivata l' ora in cui è il popolo che deve agire contro le vignette che irridono il nostro profeta e contro il ministro delle Riforme italiano che ha lanciato una nuova crociata contro l' Islam». Chi è stato in Libia sa bene che nessuno si sognerebbe mai di sfilare in corteo e tantomeno di attaccare una sede diplomatica se non glielo ordina il regime. Le poche immagini trasmesse enfatizzano una rara collera diffusa tra le migliaia di persone che hanno manifestato a Bengasi, urlando «con il sangue, con lo spirito, ci sacrificheremo per te o Mohammad (Maometto)». Che il presidente del Parlamento libico abbia strumentalizzato l' atteggiamento di Calderoli appare evidente dalle sue dichiarazioni: «Il ministro italiano ha chiesto al Papa di indire una nuova crociata contro l' Islam, vuole usare la forza contro l' Islam. Vogliono innalzare la croce nella terra dell' Islam. Noi diciamo no. La Nazione islamica è sana nonostante la collusione di taluni. Gheddafi è pronto a guidarla. In passato gli aggressori fascisti si erano illusi di sottometterci, quando avevamo poche armi ma tanta fede. Ora la Storia si ripete. Pensavamo che l' Italia fosse cambiata. Ma da sotto le ceneri emerge un' Italia che vuole riesumare il passato. Fino ad ora non ci vogliono indennizzare per le vittime e i danni coloniali». Si tratta di un annoso contenzioso che Gheddafi fa riemergere a piacimento per usarlo come clava quando decide di infierire contro l' Italia. Aumentando ogni volta la posta, anche se per il nostro Paese quel contenzioso è chiuso. A ottobre di ogni anno Gheddafi celebra la «Giornata della vendetta» contro l' Italia, un giorno di lutto in cui si rievocano le atrocità della guerra fascista per mantenere vivo l' odio e il risentimento nei confronti degli italiani. Anche se poi la Libia e l' Italia hanno uno stretto e intenso rapporto economico e commerciale, in cui la parte del leone la fanno le esportazioni di petrolio e gas libico. E' in questo contesto di per sé problematico, nonostante l' intenso lavoro diplomatico svolto dal ministro dell' Interno Pisanu per contenere il flusso dei clandestini, che è esploso il caso Calderoli sfociato nell' attacco mortale contro il nostro consolato. Non tenerne conto sarebbe fuorviante. Il ministro leghista è certamente colpevole di aver assunto, mantenendo un incarico ufficiale, un atteggiamento provocatorio che ha finito per coinvolgere la responsabilità del governo e mettere in pericolo la sicurezza delle istituzioni italiane. Ma l' esplosione di violenza era già stata decisa. Gheddafi attendeva solo il pretesto.

 

Chi alimenta i rischi globali

di Marco Guidi

Del 18 febbraio 2006 da Il Messaggero

Diciamolo subito, la comparsa della foto del ministro Calderoli su un sito notoriamente vicino ad Al Qaeda con la dicitura “maia­ le italiano” è preoccupante. Non tanto per il ministro, che, ne siamo certi, godrà di efficienti protezioni, ma so­ prattutto per tutti gli italiani che operano nel mondo isla­ mico. E accanto agli italiani la preoccupazione va estesa alle imprese italiane, alle am­ basciate italiane, alle missio­ ni italiane. Ormai, crediamo se ne siano resi conto tutti quanti, la lotta tra l'integrali­smo islamico e l'Occidente è non solo globale ma non conosce santuari. Appena 48 ore dopo la provocazione dell'esponente leghista ecco prima le reazioni di un quoti­ diano integralista iraniano, poi i moti di piazza di Bengasi, che, ricordiamolo, a diffe­ renza di Tripoli è molto più sensibile storicamente e geograficamente al fondamentalismo islamico e, infine contro lo stesso autore della bravata provocatoria. Aveva­ mo già scritto a proposito del­ le vignette danesi sul profeta Maometto che non se ne senti­ va affatto il bisogno. Non se ne sentiva il bisogno perché davano esca al fondamentali­ smo islamico non solo per attaccare l'Occidente ma per vincere la sorda lotta che all' interno del mondo musulma­ no si combatte tra moderati ed estremisti. Ora possiamo dire che con la sua provocazio­ne Calderoli ha fornito un argomento in più al terrori­ smo islamico. Un argomento in più che ha fatto rispolvera­ re un pericoloso detto di Mao metto a proposito di Roma. Il che potrebbe anche significa­ re una forte attenzione dei gruppi terroristici, che sappia­mo esistere in tutto l'Occiden­ te e anche in Italia, per il nostro Paese. Il che franca­ mente non solo non è confor­ tante, ma è irritante, visto che siamo di fronte a una provoca­ zione del tutto gratuita.

 

Libia, una protesta incontrollata o pilotata?

di Eric Salerno

Del 18 febbraio 2006 da Il Messaggero

Una manifestazione di protesta sfuggita di mano o un attacco premedi­ tato e dovuto all'infiltrazio­ ne tra i dimostranti di ele­ menti che hanno voluto im­ barazzare lo stesso Ghedda- fi, passato nel giro di pochi mesi da nemico dell'Occi­dente a suo grande alleato? Nei difficili rapporti tra Italia e Libia abbiamo potuto assistere a episodi di violen­ za ordinati o pilotati dal Leader. I due missili sparati contro Lampedusa come ri­ sposta all'attacco america­ no a Tripoli e l'assalto all' ambasciata italiana a Tripo­ li sono soltanto due dei più clamorosi esempi. Ma risal­ gono, ormai, a molti anni fa. La Libia è tornata ad essere un paese “amico” dell' Occidente, i rapporti con gli Stati Uniti sono sempre più calorosi, l'apertura al libero commercio, la rifor­ ma dell'economia sono indi cazione di un nuovo corso che ha portato il paese fuori dell'isolamento. La cronaca, scarna, degli avvenimenti di ieri a Bengasi induce a cautela. E' vero che nelle relazioni tra la Libia e l'attuale governo italiano si sta attraversando un mo­mento difficile dovuto anche al non riconoscimento da parte di Roma di quel famoso indennizzo (si è parlato di un'autostrada sul tracciato della via Balbia, duemila chilometri dalla Tunisia all'Egitto lungo la costa mediterra­ nea) ma è difficile pensare che il regime possa aver organizzato una dimostra­ zione contro le magliette di Calderoli per poi schiacciarla ordinando alla polizia di aprire il fuoco massacrando i manifestanti. Bengasi è da sempre una roccaforte del fondamentalismo islamico e degli oppositori al regime di Tripoli. Più di una volta da quando Gheddafi, con un colpo di stato nel 1969 salì al potere rovesciando la monarchia, la Cirenai­ ca e Bengasi, il suo capoluogo, sono stati sconvolti da scontri, rivolte, prote­ ste schiacciate dalle truppe fedeli al regime. Sono ancora rinchiusi nelle carceri libiche decine di islamici prota­ gonisti di quelle proteste e accusati di aver voluto rovesciare Gheddafi per istaurare un governo su basi coraniche. L'Occidente, con l'Italia in testa, ha sempre riconosciuto al leader libico, criticato per altri motivi, messo al bando per anni, quanto meno il merito di aver fermato l'espansione del fonda mentalismo islamico nel suo paese e, indirettamente, su tutta la regione che si e stende dall'Egitto all'Algeria. Nei giorni scorsi, Seif al Gheddafi, il figlio del leader considerato suo ere­ de politico, ha criticato, come quasi tutti i leader arabi, le vignette di Mao­ metto apparse sulla stampa europea e che hanno sconvolto il mondo islami­co. Sembra che abbia fatto riferimento anche alle magliette volute dal mini­ stro Calderoli sollecitando le dimissio­ ni dell'uomo di governo italiano. Per alcune ore, la manifestazione di Bengasi, a sentire le fonti diplomatiche italia­ ne, si è svolta nella calma più assoluta e lontana dalla sede del consolato italia­ no in una strada stretta e trafficato del centro e soltanto più tardi un gruppo di dimostranti ha scelto un obiettivo spe­ cifico. È probabile che la rabbia della gente, in un paese dove la maggioranza della gente considera “storico” e “fraterno” il rapporto con gli italiani e si limita a ricordare e criticare il passata coloniale, sia stato in qualche modo pilotata. Dal regime? Oppure quello che è accaduto a Bengasi va paragona­ to ai moti di Beirut di due settimane fa dove centinaia d'infiltrati, quasi tutti stranieri (palestinesi, giordani, siriani) hanno trasformato quella che doveva essere una pacifica manifestazione di protesta in un assalto alle ambasciate occidentali e alle chiese della comunità maronita? «Gheddafi è ora nel mirino di Al-Qaida», l'affermazione di un ana­ lista occidentale incontrato recente­ mente a Tripoli. Con la fine dell'embar­ go e il ritorno in Libia delle grandi compagnie petrolifere, il paese norda­ fricano è considerato “a rischio destabilizzazione”. Gli undici morti e cinquan­ ta feriti di Bengasi sono, dunque, un errore di valutazione del regime o l'assalto dei suoi nemici?

 

Il Ministro se ne vada

di Igor Man

Del 18 febbraio 2006 da La Stampa

Ci dispiace che undici o più libici siano stati uccisi dal «fuoco amico» della polizia della Jamahiria. In Libia comandano le masse, non si stanca di ripetere il colonnello Gheddafi nel suo Libretto Verde dove troviamo Rousseau (che Al Qaid, la Guida, afferma di aver letto solo dopo aver esplicitato la sua terza teoria), e inoltre Proudhon, Bakunin. Ci dispiace ma poiché il Colonnello gli integralisti li detesta è facile immaginare che la polizia, pur di impedire che i dimostranti distruggessero il Consolato italiano, abbia agito brutalmente. Nell'aprile del 1976 uscendo dal compound dell'Università della Cirenaica dove Gheddafi aveva animosamente discusso con quegli studenti, vedemmo oscillare al vento caldo un camicione appeso a un palo-forca. Dentro il camicione c'era il corpo, inanimato di qualcuno. Si trattava, come subito ci spiegarono con terribile disinvoltura, di un «integralista» membro d'una confraternita giustappunto «fanatica e quindi antislamica». Scriviamo tutto ciò per cercar di capire gli accadimenti di Bengasi. La dimostrazione, così sanguinosamente repressa, aveva come obiettivo il nostro Consolato, giustappunto. Era proclamato l'intento di protestare per la t-shirt esibita al Tg1 dal ministro italiano delle riforme Roberto Calderoli E possiamo prender per buona fra le tante la versione (ufficiosa) secondo cui la polizia aveva appreso di «infiltrati» decisi a trasformare la protesta «in un assalto cruento». Va qui detto che, oramai da moltissimi anni, la tv italiana sia molto seguita in Libia, non soltanto dai nostri connazionali che vi lavorano, rispettati, apprezzati un po' da tutti. La sbruffonata del ministro leghista che ha ignorato il garbato tentativo di frenarlo di un Mimun visibilmente irritato, è già stata giudicata inopportuna e antipolitica dal nostro ministro degli Esteri e non ci stupisce che il presidente del Consiglio abbia addirittura considerato opportune le dimissioni del Calderoli. Dimissioni alle quali il suddetto ministro non ha mai pensato: evidentemente era e rimane convinto d'aver agito spiritosamente. Un po' tutti in Italia hanno accolto con sconcerto le reazioni a posteriori, proprio «a freddo», di sedicenti islamici volte a condannare le vignette (invero infelici ma soprattutto brutte) pubblicate da un giornale danese di destra estrema. E' apparso chiaro l'intento di montare un casus belli, fors'anche per qualche copia in più. Un po' tutti, magari obtorto collo, abbiam detto e scritto che il direttore di quel quotidiano non avrebbe dovuto pubblicare le vignette infelici non già per censurare, ma soltanto per una questione di buon gusto. Siamo tutti contro la censura, non facciamo che riempirci la bocca di Voltaire eccetera ma nessuno, o pochi, vuol rassegnarsi alla realtà. E cioè che l'islam radicale ha dichiarato guerra agli ipocriti sulla terra. Che in primo luogo, nell'ottica integralista, sono i cosiddetti islamici «moderati» (vedi l'Egitto). Fatta pulizia in casa, l'islam integralista attaccherà il mondo occidentale, giudaico-cristiano con le due armi tremende che possiede: il petrolio, il terrorismo (anche suicida). Il profetizzato scontro fra civiltà passa per la cruna dell'attuale scontro fra religioni. Sarebbe ipocrita negarlo anche se, forse, tranquillizzante. Non senza coraggio ancorché, ovviamente, col placet del raiss, il settimanale storico del mondo arabo, l'egiziano Rosa el Yussef, che vanta una lunga tradizione di laicità, ha pubblicato un dossier che potrebbe definirsi catastrofico. Breve: usando l'urna elettorale, uomini e movimenti oltranzisti sono entrati nel parlamento di questo o quel paese islamico, segnando l'inizio di una lenta occupazione di tutti gli spazi moderati, parademocratici. La tragedia di Bengasi costringerà (verosimilmente) Gheddafi a straparlare e questo perché il Colonnello non è in buoni rapporti con gli ulema. Gheddafi ha emancipato la donna aprendole la carriera militare, ha rivoluzionato il calendario maomettano, insomma ignora gli ulema. Hanno tentato di ammazzarlo o di rovesciarlo non poche volte, ma il Saint Just beduino grazie alla sua baraka (l'infula di Dio) se l'è sempre cavata. Ma oggi non è ieri poiché ieri l'Iran era un paese islamico all'acqua di rose mentre oggi, con l'avvento dell'ex sindaco integralista di Teheran alla presidenza, aspira alla leadership del cosiddetto «islam riaffermato». Va detto ancora che l'Iran è sciita ed essendo, con la vittoria del khomeinismo, assurto a pesce pilota nel grande mar del petrolio, oggi pensa di monetizzare geopoliticamente il primato della Sh'ia. Attenzione: dopo secoli di mortificazione, lo Sciismo alza la testa. In Iraq le elezioni han dato il sì agli sciiti che sono la maggioranza islamica in Libano, e contano in Hamas. La sbruffonata del ministro Calderoli in altri momenti non avrebbe preoccupato nessuno. Si tratta anche di una questione di scarsa eleganza e di modesto spessore politico. Certamente le dimissioni del Calderoli sarebbero un buon segnale di ragionevolezza, un recupero di stile. Ma non ci si illuda: l'islam radicale ha ambizioni enormi sicché la (sua) contestazione dell'occidente «neocolonialista e blasfemo» continuerà e non saranno certo rose e fiori. Ma val la pena di ricordare che mai, dico mai, nella sua lunga storia, l'islam sia riuscito a trasformare la contestazione in istituzione.

 

 

 

 

 

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