«I libici non vi odiano. È un espediente ideato da Gheddafi»

di Francesca Paci

Del 10 maggio 2006 da La Stampa

Tre uomini fumano seduti sulla panchina davanti al cinema Omar Khayam. Pantaloni beige, maniche corte, capelli grigi impomatati con la riga da una parte bassa come si usava da noi negli Anni ‘50. In cartellone c'è «Ladri di biciclette» di Vittorio De Sica. Il manifesto con Anita Ekberg tra le braccia di Marcello Mastroianni annuncia il prossimo film: «La dolce vita». Le tracce del passato. «Ma quando mai i libici hanno odiato l'Italia? Balle», attacca Mohammed, un impiegato che lavora nell'edificio squadrato all'incrocio tra i viali Omar Mukhtar e Amr ibn al-Ass dove fino al 1970 aveva sede la Banca di Roma. I segni della colonizzazione sono stati rimossi dalla città come le vecchie insegne in marmo con il nome delle strade in caratteri latini: le scritte sono tutte in arabo. Restano tracce qua e là, un tombino arrugginito su cui si legge ancora «Municipio di Tripoli», la macchina del caffè Gaggia sul bancone del bar Gazelle in via al-Fat'h, le foto in bianco e nero nell'archivio della galleria d'arte Ghadames con le colonne di piazza al-Kradrah sovrastate dalle statue della lupa e di Benito Mussolini che sguaina la sciabola dell'Islam. Al posto di quelle icone coloniali svettano ora una nave e un cavaliere in sella. Il Lido, lo stabilimento balneare costruito all'epoca del maresciallo Badoglio, è stato raso al suolo nel 2004. In casa si usa l'italiano. «Prima della rivoluzione del 1969 c'era la fila per iscriversi alla scuola italiana, chi ha studiato la lingua da giovane la parla ancora, in casa», continua Mohammad, orgoglioso d'esprimersi fluido nel nostro idioma. Lo sta insegnando ai sette figli dai 3 ai 25 anni, una famiglia ristretta rispetto alla media. Il 3 marzo, mentre il Colonnello Mohammar Gheddafi commentava in tv l'assalto al consolato italiano di Bengasi «i libici odiano l'Italia e cercano qualsiasi occasione per sfogare la loro rabbia contro l'ex occupante», Mohammad giocava a scopa con gli amici seduto a un tavolo della Galleria de Bono: «In pubblico dobbiamo applaudire, ma in privato cambiamo canale. I libici non odiano l'Italia, odiano Lui, ecco la verità». La rivolta degli sguardi. L'opposizione alla Jamahiriya, lo «Stato delle masse» instaurato 36 anni fa deponendo re Idriss, è poco più d'un gioco di sguardi, occhi levati al cielo, mezze parole, gesti eloquenti. Ma c'è. Nel piccolo porticciolo sul lungomare al-Corniche, dove i tripolini comprano polpi appena pescati e se li fanno cucinare alla brace nei chioschi sulla spiaggia, Mustafa issa le reti in barca e dice piano: «Se te ne infischi della politica puoi pure vivere bene in Libia. Con quello lì al governo conviene starsene zitti. Visto cosa è successo a Bengasi? Prima ha autorizzato la manifestazione e poi gli ha fatto sparare addosso». Tripoli, la sposa bianca del Mediterraneo come la chiamano i marinai, racchiude due città. Una virtuale, patinata, immortalata nel grande poster sulla piazza al-Kradrah con Gheddafi a bordo del maggiolone verde che saluta trionfante il popolo in festa. L'altra reale e polverosa come la tabaccheria sotto i portici all'angolo con via Mohammed Megharief. Un pacchetto di Gauloises costa un dinaro e mezzo, circa un euro, il prezzo di dieci litri di petrolio o tre bottiglie d'acqua. Il proprietario Mukhtar prende dal cliente straniero le due banconote da un dinaro ciascuna su cui è stampato il volto fiero del Colonnello e gli rende il resto ammiccante: «Due Gheddafi? No no, è troppo. Uno basta e avanza...». Un odio alimentato ad arte. «Al governo fa comodo tenere aperto il dossier Italia, ma la gente non ce l'ha con noi», osserva una fonte diplomatica occidentale. L'eco di Bengasi ha raggiunto di striscio i nostri connazionali nella capitale, un paio di settimane all'insegna dell'understatement, poi il ritorno alla routine. Angela, un'imprenditrice romana, ammette lo smarrimento iniziale: «Abbiamo avuto molta paura. Per qualche giorno non si sono viste in giro auto con la targa straniera. Uscivamo di casa solo se necessario». Adesso invece la incontri nei vicoli del suq al-Turk mentre accompagna un'amica di passaggio a curiosare tra souvenir, gioielli tuareg, piccoli cammelli di peluche, orologi con l'immagine di Gheddafi a 10 dinari. Il tracollo del turismo che ha messo in ginocchio la Cirenaica non ha toccato la Tripolitania, dove comitive di visitatori in short sciamano tra le rovine di Sabratha e Leptis Magna godendosi l'aria frizzante. La recita di Bengasi. «Bengasi è stata una messa in scena - insiste il diplomatico -. Esistono foto che mostrano il saccheggio del consolato con i vandali all'opera sotto lo sguardo di un inerme poliziotto con i baffi. Non possiamo protestare con le autorità perché risponderebbero che ci hanno difesi facendo addirittura 14 morti». Quei morti sono stati poi proclamati martiri e nei bar si mormora sia stata un'idea del secondogenito del Colonnello Sayf al-Islam che non avrebbe gradito l'attenzione riservata dai nostri quotidiani alla sua avventura amorosa con l'attrice televisiva israeliana Orli Weinerman. Una città, due anime. La città di Gheddafi e quella dei libici. Il teatro e il suo doppio. La Jamahiriya islamica dove è impossibile trovare un locale che serva alcolici e le case con la parabola sintonizzata sul mondo e la cantina piena di bottiglie di vino prodotto artigianalmente con mele fermentate perché, concede l'elettricista trentunenne Majid, «siamo tradizionalisti e le nostre donne non escono da sole, ma un bicchiere di rosso ogni tanto non ci manderà all'inferno». Stretto tra le due Tripoli, il tricolore, una comunità da poco meno di mille persone, oltre la metà dipendenti dell'Eni. «Credete a me, gli italiani che vivono qui sono perfettamente a loro agio con i libici», afferma suor Pierina, monaca bolognese dell'ordine di Madre Teresa di Calcutta. All'uscita dall'affollatissima messa domenicale, nella chiesa di San Francesco, suor Pierina e monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli dal 1985, raccolgono le offerte dei fedeli, medicine e abiti smessi. Servono per la parte più numerosa e povera dei cattolici libici, gli immigrati dell'Africa subsahariana che si ritrovano qui il sabato pomeriggio per la funzione in francese accompagnata da canti e battiti di mani come un gospel. Sul sagrato, un'auto della polizia ricorda che un paio di mesi fa gli italiani preferivano pregare in casa. «Ora la situazione è tranquilla», conferma monsignor Martinelli. La parrocchia di San Francesco partecipa alle iniziative interreligiose dell'Islamical Society, che ha sede nell'ex cattedrale di Tripoli: «Mantenendo un profilo basso abbiamo trovato un buon modus vivendi con i musulmani. Non sono integralisti anche se negli ultimi anni c'è stato un ritorno al velo femminile. Certo, parlare di reciprocità con l'Islam è impossibile. Lo vediamo dal numero di ragazze cattoliche che sposano un musulmano all'estero, convinte dalla sua apparente apertura mentale, e quando vengono qui scoprono d'essere state ingannate». Le unioni miste lasciano scettico il vescovo e quella chiesa in viale Omar Mukhtar trasformata in palestra di karate non gli va giù. Tuttavia, i libici sono «amici». Soprattutto degli italiani. A volte ci rimpiangono «Gheddafi pretende dall'Italia l'autostrada da 4 miliardi di euro, ma potrebbe benissimo costruirla lui anziché finanziare monumenti in tutta l'Africa per accreditarsi come leader continentale», butta là l'archeologo Younis, un sessantenne minuto che quasi rimpiange i colonizzatori, «almeno investivano in questa città». Ha appena acquistato un volume su Leptis Magna alla libreria Fergiani, il paradiso degli italofoni che espone una copia di «Cirenaica pacificata» del famigerato generale Rodolfo Graziani. Un rapporto complicato. «Il nostro rapporto con il Paese è complicato», riconosce un funzionario, l'unico disposto a dire che sì, il popolo non è ostile ma l'ambiguità del governo pregiudica la collaborazione. Numerosi i fallimenti. La proposta d'invitare il direttore d'orchestra Riccardo Muti a Sabratha respinta perché «ideologica». Lo scambio Tripoli-Torino «naufragato quando l'insegnante tripolina invitata nel capoluogo piemontese per supervisionare il progetto si è rifiutata di salire in auto da sola con un collega italiano». La neonata associazione di libici che hanno studiato in Italia di cui però nessuno vuole fare il presidente. All'ingresso del museo della Jamahiriya, accanto alla Venere di Leptis Magna restituita nel 2000 dal governo D'Alema, una bacheca espone la lettera del 1936 con la quale Mussolini donava la statua a Hermann Goering, in nome dell'amicizia nazi-fascista. Il carteggio è tradotto in arabo e inglese, ma non c'è un solo rigo che spieghi alle scolaresche il momento della restituzione. «L'immagine dell'Italia coloniale puntella quella sempre più fragile di Gheddafi liberatore», conclude Mohammad. La gelateria accanto al cinema è affollata di famiglie con i bambini. Dietro al bancone una fotografia ritoccata del leader, eternamente giovane.

 

 

 

 

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