Là dove hanno bruciato l'Italia

di Francesca Paci

Del 1 maggio 2006 da La Stampa

Il muratore filippino Ramon esce sul sagrato con il registratore Sony sotto il braccio: dal 17 febbraio scorso, quando centinaia di giovani reduci dall'assalto al Consolato italiano hanno devastato la chiesa di Santa Maria Immacolata, l'impianto stereo da cui i fedeli del vescovo Sylvester Magro ascoltavano gli inni sacri, durante la messa, non c'è più. Non ci sono più le stazioni della Via Crucis, divelte dalle pareti della navata e fatte a pezzi, né il tabernacolo intarsiato d'oro alle spalle dell'altare. Dietro la piccola porta in legno, sovrastata da una croce, la chiesa dei padri francescani sembra sopravvissuta a un bombardamento. Resti di mobili ammassati agli angoli del cortile, pile di volumi della biblioteca anneriti dalle fiamme, macerie: due mesi dopo l'irruzione il puzzo acre dei falò serra ancora la gola. Intorno, i vicoli polverosi di Bengasi celano la via diretta alla parrocchia. In ogni angolo oscuro si mormora piano, in arabo, il ricordo della furia. Trovare la strada è un rompicapo: i bottegai in jallaba, la tunica tradizionale, pretendono di non conoscere l'indirizzo esatto, quasi a giustificarsi, con un po' di vergogna, perché no, «non so neppure dove sia la chiesa cattolica». Figurarsi incendiarla, loro. E' il messaggio sottinteso. «Perdonare i nemici di Dio, ecco la nostra croce da portare con pazienza», dice padre Marco, frate sudanese di 36 anni in clergyman e sandali, mentre spegne le candele fissate con la cera sulle panche umili. La funzione delle 18 è terminata, il canto del muezzin diffuso dai minareti delle moschee di Osman e Atiq richiama i musulmani alla preghiera. Una famiglia del Congo attende monsignor Magro per la lezione di catechismo delle due figlie, compunte, a capo chino, la nuca decorata dalle treccine afro. Tutti fingono che sia una normale sera di primavera, con il vento fresco a soffiare dal lungomare Rafiq al-Mahdawi. Nessuno invece, nello sbrigare la vita quotidiana, dimentica la paura d'essere cattolici e «amici degli italiani» nei quattro giorni dell'odio, quando «la polizia ha lasciato questi quartieri, oggi quieti, in mano ai vandali». Santa Maria Immacolata è rimasta chiusa per settimane, mentre i nostri connazionali fuggivano dalla città, scortati dalla polizia libica. Religiosi, imprenditori, docenti. Un gruppo di monache è tornato nell'ospedale locale all'inizio di aprile. Le guida Suor Paola, a Bengasi come infermiera da 33 anni. Ha visto partire gli amici cacciati da Gheddafi all'inizio degli anni settanta, ma non fa una piega, «non mi spavento facilmente». A ricordare la chiesa saccheggiata però, si commuove: «Porte sfondate, paramenti sacri bruciati, tele distrutte». Mai avuto guai con l'islam, giura, ma ora si muove con cautela, protetta solo dal velo che la rende simile alle donne di Bengasi, coperte da capo a piedi senza eccezioni. Chi ha osato violare un luogo sacro, cavalcando l'indignazione dei musulmani per le vignette su Maometto? Se ne parla con discrezione e gettando intorno occhiate prudenti. Ognuno a Bengasi ha una teoria. Ma le conclusioni, di solito, concordano: «Il Vangelo e gli italiani non c'entrano». «E' stato Lui, per mettere in fuga il turismo e ridurci alla fame» mormora Ali, un falegname del suq al Jreed, indicando con la testa l'icona gigantesca che dall'imbocco del vicolo sterrato incombe sulla sua bottega. «Lui» è il colonnello Muhammar Gheddafi, onnipresente in occhiali da sole da duro. Tra le migliaia di manifesti che campeggiano ovunque in Libia, quelli di Bengasi sono gli unici privi del numero 36, XXXVI anniversario della rivoluzione del 1969. La gente qui non ha voglia di festeggiare. In due mesi la paciosa Cirenaica è uscita dai depliant dei tour operator: gli italiani, tre quarti dei visitatori, si sono eclissati. Gli ultimi erano atterrati all'aeroporto Bernina il 17 febbraio e sono ripartiti senza neanche ritirare i bagagli. L'accompagnatore Mahmud che li aspettava in città per accompagnarli alle magiche rovine di Apollonia e Cirene, conserva nel cellulare le foto dell'assalto al Consolato, memento mori dei collegamenti diretti con Roma e del lavoro di tante persone. Un primo, sparuto, gruppetto ha fatto capolino dopo Pasqua. «Tutta colpa degli islamici radicali, sono loro ad aver distrutto Santa Maria. Dagli una croce e reagiscono come tori davanti alla muleta», sussurra il carpentiere polacco Klaus, da una postazione dell'Hadia Group Internet, uno dei pochi cybercafè. Dal 19 febbraio non riesce a mettersi in contatto con Guido, il suo insegnante d'italiano scappato in fretta e furia da Bengasi, studiavano la lingua leggendo la Bibbia: «Gli integralisti guadagnano spazio approfittando della lontananza da Tripoli. Per fortuna non c'è ancora un leader carismatico, ma importano le interpretazioni estremiste del Corano via Egitto. Sono gli egiziani gli agitatori». Sotto accusa dunque «gli stranieri», «quelli del Cairo e dintorni», come qualcuno chiama i militanti. Da Tobruk, al confine orientale, entrano ogni giorno disperati che sognano di attraversare il Mediterraneo e sbarcare in Europa. Si ritrovano invece a mendicare un lavoro lungo il viale 23 Luglio, accucciati sul marciapiede, gli attrezzi del mestiere esposti a mo' di spot primitivo: martello e chiodi, una pala, un pennello da imbianchino. Klaus se la prende con «gli islamici» ma le sue parole tradiscono la paura d'uno scontro tra poveri in cerca di fortuna in terra straniera anziché di un conflitto di civiltà. I fatti di Bengasi appaiono più un artificio che l'avamposto della guerra santa contro i crociati rilanciata da Osama bin Laden con la chiamata alle armi in Sudan o l'antefatto alla strage fondamentalista di Dahab. Fonti diplomatiche sospettano che l'attacco al nostro Consolato possa aiutare l'emigrazione clandestina, «Durante la razzia sono stati portati via interi armadi pieni di visti. Chissà che non finiscano sul mercato nero, venduti con un passaggio per la Sicilia...». Sullo sfondo della politica, la chiesa e lo scheletro del Consolato italiano, finestre e porte inutilmente murate nell'edificio sventrato. «Sono entrati con una ruspa», racconta Fauzi, un medico che ha fotografato il caos con il telefonino. La chiesa e il Consolato: i primi due luoghi di cui chiede ogni italiano da queste parti, gli ultimi che i libici vorrebbero mostrare, intimando alle guide di escluderli dal tour. «Non ce l'abbiamo con voi, credete. Studiamo l'italiano, amiamo le suore che curano i ragazzi in ospedale, sappiamo a memoria i nomi dei calciatori azzurri. A proposito, Totti è guarito?»: Abdul, un elettricista di 39 anni, siede davanti a una Coca Cola al caffè Asciamil, sul lungomare. Un piccolo locale con la tv sintonizzata su Al Arabya che trasmette una partita del Real Madrid. La metafora calcistica funziona sempre: «E' come una contesa storica tra due tifoserie. Tripoli contro Bengasi. Questo ti spiega cosa è successo, niente altro. Siamo l'opposto su tutto. Noi poveri e loro ricchi. Qui provincia, di là impero. A Bengasi tifiamo per il Milan, a Tripoli per la Juventus. La chiesa e il Consolato sono vittime della strisciante guerra civile libica». Il calcio c'entra anche per Mohammad, un pensionato che negli anni trenta ha indossato la divisa dei giovani balilla e quando parla italiano ha le lacrime agli occhi: «Qualche anno fa la squadra di Bengasi Al Ahly sovrastava la rivale di Tripoli Al Ittihad, dove militava Saadi Gheddafi, il figlio del Colonnello, lo conoscete anche in Italia, non ha cercato di giocare nel Perugia? - interviene -. Un giorno, dopo che alcuni tifosi avevano insultato ‘la famiglia' siamo retrocessi in serie B e un bulldozer è venuto a spianare la sede del club». Gli altri avventori si avvicinano: il pallone è una buona scusa per dare addosso al regime e ribadire l'amicizia con gli italiani. «Quelli che hanno attaccato il Consolato erano vandali». «Teppisti pagati dalla polizia segreta di Gheddafi». «Visto che hanno saccheggiato l'edificio? Altro che sfida al tricolore, sono ladroni». E la chiesa? Le ostie consacrate strappate al tabernacolo e abbrustolite? Imbarazzo, colpetti di tosse, occhi a terra. Ahmed ordina un'altra Coca. Dare la colpa a un manipolo di estremisti islamici non basta. Cala il silenzio. Tanti si vergognano, come i bottegai della medina, la città vecchia, che fingono d'ignorare l'indirizzo di Santa Maria Immacolata piuttosto d'ammettere d'essere rimasti inermi a guardare nei giorni della furia blasfema.

 

 

 

 

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