La testimonianza oculare di uno dei nostri pochi connazionali che hanno lasciato Bengasi

di Guido Ruotolo

Del 22 febbraio 2006 da La Stampa

«Sono in macchina. Aspetti che accosto. La città è meno affollata del solito. Poche macchine in giro, pochi passanti. Vedo la pre­senza massiccia di forze di poli­zia davanti agli edifici pubblici, nelle piazze. Da lunedì sera sono stati chiusi i cafè-Internet. Pur­troppo sono l'unico con la targa straniera in giro. Gli altri sono partiti, o vivono chiusi in casa. Insomma, non si fanno vedere. No, non ho paura, sono un italia­no integrato perfettamente nella comunità di Bengasi. Da lunedì a mezzogiorno non si sono registra­ti nuovi incidenti. La situazione sembra tornata sotto controllo, per il momento. Nel senso che non si sono ripetuti altri inciden­ti. Il peggio è passato? Mi auguro che sia così. E' una speranza». Dopo un paio di tentativi anda­ti a vuoto, il cellulare di Antonio - il nome è convenzionale - uno degli italiani che ha deciso di non abbandonare la città, finalmente squilla libero: «Venerdì, quando sono iniziati gli scontri, mi trova­vo a pochi metri dal consolato italiano. Ho visto tutto. La mani­festazione era stata autorizzata dalle autorità. Era una protesta contro le vignette danesi che deridevano Maometto, e contro le dichiarazioni del nostro mini­stro Calderoli. Nel corso della manifestazione, saranno stati un migliaio, non ho sentito gridare uno slogan anti-italiano. Poi, una volta che il corteo - dopo aver consegnato a un rappresentante italiano una lettera di protesta - ha superato il nostro consolato, che è Tunica rappresentanza di­plomatica occidentale, un grup­po di giovani che man mano si è andato a ingrossare, raccoglien­do parecchia gente, ha iniziato a prendere di mira il consolato..». Ha una voce simpatica Antonio, l'accento è marcatamente emiliano anche se vive in Libia dal 1967 - «quando c'era re Idris, prima della rivoluzione di Gheddafi. Arrivai a Bengasi che avevo 25 anni..», parla perfettamente l'arabo e si è sposato con una donna egiziana. Ma con Gheddafi, domando, gli italiani non furo­no tutti rimpatriati? «Io sono rimasto, sono musulmano». E oggi fa il rappresentante di una ditta di import-export: «II nostro obiettivo - dice Graffi - è quello di far diventare industriale anche l'agricoltura. Facciamo pro­getti chiavi in mano». Dunque, gli incidenti di vener­dì e dei giorni seguenti. «Purtrop­po - riprende il racconto - la caduta di stile del nostro mini­stro ha provocato gli incidenti. Un certo nervosismo era presen­te da tempo, a Bengasi tutti hanno il televisore e la vicenda delle vignette blasfeme contro Maometto ha colpito nel profon­do la popolazione. Poi è arrivato il nostro ministro Calderoli con i suoi proclami di nuove Crociate contro gli infedeli. L'effetto è stato quello della benzina sul fuoco». Antonio sottolinea più volte che la Libia «considera l'Italia un Paese amico», e che ogni libico ha nella sua casa «qual­cosa di italiano». Insomma tra i due Paesi «i legami sono molto intensi» e «le dichiara­zioni del nostro ministro sono state una pugnalata. E' come se i libici si fossero sentiti traditi». Ma nel suo racconto, vi è traccia di qualcosa che non qua­dra. La manifestazione di vener­dì era autorizzata, insomma la protesta contro i danesi e Calde­roli aveva avuto il via libera dalle autorità. Poi, nel corteo si sono infiltrati gruppi fino allora estranei alla manifestazione. «Non sono in grado di aggiunge­re altro - insiste - non spetta a me azzardare delle ipotesi. Mi fermo a un'immagine: il corteo istitu­zionale che va oltre il consolato e davanti alla nostra rappresentan­za diplomatica si concentra altra gente, non gli stessi del corteo». Prende fiato: «Non capita tutti i giorni che una manifestazione a un certo punto finisca fuori con­trollo, degenerando. Certo è che la polizia non aveva avuto ordi­ne di sparare poi però la situazio­ne è precipitata e ci sono stati morti». Tutto questo accadeva appe­na venerdì. Poi, con sabato, i funerali: «Gli scontri sono scop­piati più violenti rispetto al giorno prima. Sono state prese di mira diverse caserme delle forze speciali». Del commissariato di polizia assediato nella notte di sabato, per ottenere la scarcera­zione dei fermati, rivelato dall'ambasciatore italiano a Tripoli, non ha notizie precise. «Se doves­si dire qual è il clima di stasera, non posso negare che la tensione è ancora palpabile. Tutto è inizia­to, venerdì, per via delle offese a Maometto - dice adesso - ma poi, chissà, la protesta è diventata qualcos'altro». Ha una certa diffi­coltà ad ammetterlo, anche se lo lascia intendere. Non esplicita che le manifestazioni e le violen­ze possono avere assunto caratte­ri antigovernativi ed essere fomentate dall'estremismo islamico. Si limita a una considerazio­ne: «La repressione di venerdì è stata durissima, per evitare che il consolato italiano fosse occupa­to, cosa che purtroppo è poi accaduta, mettendo a repenta­glio la vita dei nostri connaziona­li, la polizia non ha esitato a sparare. La collera così è monta­ta contro la polizia e le autorità». Su questa protesta potrebbero essersi attivate altre spinte. «Sta­sera - racconta ancora - la tv ha mandato in onda un servizio su un'esercitazione militare che si è tenuta non so dove, con i carri armati. Un modo per dire che il governo c'è».

 

 

 

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