L'opinione del vescoco segretario del supremo tribunale apostolico e teologo dell'ex sant'uffizio con Ratzinger

di Giacomo Galeazzi

Del 22 febbraio 2006 da La Stampa

«Basta continuare a porgere l'al­tra guancia, l'autodifesa è un dovere. Di fronte alla minaccia del fanatismo islamico, l'Occi­dente chiude gli occhi come fece con Hitler». A lanciare il monito («dialogare non significa negare ciò in cui crediamo») è il vescovo Velasio De Paolis, teologo dell'ex Sant'Uffizio al fianco di Joseph Ratzinger, oggi segretario del supremo tribunale della Segnatu­ra Apostolica (la Cassazione vati­cana), decano della facoltà d diritto canonico della Pontificie Università Urbaniana e voce autorevole della Curia. «L'Islam non ha alla base nessuna filoso­fia né teologia, si è diffuso con la spada e con la spada continua a far paura», mette in guardia il giurista della Santa Sede. A che punto è il dialogo con i musulmani? «Il vero problema è che non si sa con chi parlare né quanto i nostri interlocutori ufficiali siano rap­presentativi del mondo islamico. L'Islam non ha una separazione fra sfera religiosa e civile. Se si fa satira sulla Chiesa e sul Vangelo nessuno protesta. Per i musulma­ni, invece, la religione si identifi­ca con il potere politico. Abbia­mo a che fare con teocrazie, un po' come per altri versi ci accade con Israele. E resta il dubbio se leader "laici" come Gheddafi si siano piegati all'Islam per non perdere il trono e ora debbano guardarsi dall'Islam che vuole defenestrarli». In questo quadro, la Chiesa che fa, porge l'altra guan­cia? «Attenti all'equivoco. Guai se porgere l'altra guancia significa rinunciare a essere se stessi. Quando lo schiaffeggiano davan­ti al sinedrio, Gesù non dice di colpirlo sull'altra guancia, ma ne chiede conto. «Se ho parlato ma­le, dimostramelo, se ho parlato bene perché mi percuoti?». L'au­todifesa è doverosa. Il primo dovere che abbiamo come cristia­ni è testimoniare la verità, siamo venuti al mondo per questo. Certo che la verità non si impone con la forza, né con l'offesa dell'altro. Ma se rispettare l'al­tro significa rinunciare a se stes­si, non ha più senso dialogare». Perché? «Innanzi tutto perché a dialoga­re bisogna essere in due. Il dialo­go, per non essere vuota retorica, deve smettere di essere un'inizia­tiva unilaterale. Due persone si pongono distinte l'una di fronte all'altra, riconoscendosi diverse e con una propria dignità, Chi dialoga prima di tutto è chiamato a presentare se stesso: io sono cristiano, tu sei musulmano. L'er­rore è mettere tra parentesi ciò in cui si crede in base al pretesto di rispettare l'interlocutore. Fino­ra si è parlato solo dei punti che ci uniscono ma tacere le differen­ze ha un effetto rovinoso. Per la Chiesa e per la società. Il rischio è che i musulmani dialoghino finché in Occidente sono mino­ranza. Poi che ne sarà dei valori cristiani? Deve esserci reciproci­tà: invece è diventato un tabù porre la questione. L'Europa non crede più a niente e l'assenza oli valori è mascherata dalla retori­ca della tolleranza e del dialogo a tutti i costi». Si riferisce al caso Calderoli? «L'ex ministro non sarà uno stinco di santo, però in questa bufera si è persa la testa scivolan­do negli insulti. Tutto è diventa­to subito una questione politica e non si è stati capaci di focalizza­re il problema reale. Anzi, a parlare di queste cose si rischia la galera e l'anomalia sta proprio qui. La Chiesa, che è sempre depositaria della verità, non ha paura del dialogo: più si appro­fondisce, più diminuiscono le distanze e meglio è per noi. Chi teme la verità non dialoga e si impone con la forza. In ogni modo, dove sta scritto che in nome della libertà di satira si può infangare ciò che milioni di persone hanno di più intimo?». Deluso dal dialogo? «È più di mezzo secolo che l'Occidente ha relazioni con i Paesi arabi, soprattutto per il petrolio, e non è stato capace di ottenere la minima concessione sui diritti umani. Il limite dell'Oc­cidente sta proprio qui. Parla sempre di valori, ma poi ha bisogno del commercio con la Gina e del petrolio islamico, per­ciò chiude gli occhi sulle sistema­tiche violazioni, come già fece con Hitler. Non è che per la Chiesa il dialogo interreligioso non abbia fatto passi avanti. L'intoppo è che l'Islam è chiuso al punto da non ammettere reci­procità. La scorsa Pasqua, in visita nella "moderata" Tunisia, ho dovuto dire messa in casa senza poter esporre segni cristia­ni all'esterno. In terra d'Islam appena la Chiesa presenta se stessa nella sua autenticità scat­ta subito l'accusa di proseliti­smo. Io discuto con rispetto, ma il mio obiettivo è convincere l'altro che la mia dottrina è vera. Se non si può fare neppure que­sto, ognuno rimane chiuso nella sua fede e ci trastulliamo con una parvenza di dialogo». Quali sono gli ostacoli? «La Chiesa ha i suoi organi che parlano in modo ufficiale, l'Islam no e ognuno si sente legittimato a dirsi rappresentati­vo dell'intera comunità islamica. E mentre mancano autentici refe­renti, se un musulmano si con­verte deve diventare rifugiato politico e nasconderei per sfuggi­re alla morte. Che razza di dialo­go è se si evita di affrontare questi macigni che ci dividono e si enfatizzano solo i punti che abbiamo in comune?».

 

 

 

 

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