Il viaggio in Libia degli ebrei cacciati nel ’67 «L’emozione di rivedere gli amici e la mia casa».
Seimila persone. La trattativa

di Maurizio Caprara

Del 15 ottobre 2004 da Corriere della Sera

Shalom Teshuba, 70 anni: «Una grande accoglienza, ci aspettavano con sei automobili»

Amici romani che lo conoscono da decenni non gli avevano mai visto versare una lacrima. Ma quando ieri è sceso dall’aereo che lo ha riportato a Fiumicino dalla Libia, Shalom Teshuba ha pianto. Settant’anni d’età, metà trascorsi lontano dal Paese nel quale era nato perché era colpevole di essere ebreo, quest’uomo con i capelli brizzolati faceva l’importatore di spezie. Fu uno degli ultimi libici di religione israelitica a lasciare Tripoli dopo le persecuzioni cominciate nel 1967 durante la guerra tra Israele da una parte e Egitto, Siria e Giordania dall’altra. Negozi incendiati, agguati mortali, linciaggi. L’innalzarsi di un cordone sanitario formato da manifestazioni ostili verso connazionali che frequentavano le sinagoghe invece delle moschee. Teshuba riuscì a tener duro fino al 1969, poi si aggiunse alle circa 6.000 persone che avevano cercato riparo in Italia. «A casa, i miei erano in pensiero», ha detto ieri per giustificare le lacrime alla fine del viaggio. Aveva rimesso piede a Tripoli domenica scorsa, quando, per volontà di Muhammar el Gheddafi, la «Gran Jamahiria araba libica popolare socialista» ha riaperto le porte a una delegazione degli ebrei cacciati a tempi di re Idris e tenuti fuori dal regime del Colonnello. E’ stata la prima volta. Ecco, dalle parole di Teshuba, che del Comitato ebrei libici è il presidente, la ricostruzione di questa apertura della Libia. Un segnale all’Occidente, all’Italia e, sullo sfondo, anche a Israele, Stato tuttora non riconosciuto dalla Jamahiria. Una storia nella quale compaiono ricordi, emozioni, e il capo del servizio segreto libico per l’estero, Musa Kusa.


Che cosa avete ottenuto con questo viaggio? 
«Ci hanno detto: se volte potete tornare. Se non vi va, aprite uffici a Roma e lavorate qui attraverso personale libico». 
Soltanto voi cacciati dopo il 1967 o anche quanti erano stati mandati via dal 1945? 
«Soltanto noi». 
Vi hanno considerato più italiani o più libici? 
«Più libici. Ci hanno spiegato: potete prendere anche la doppia cittadinanza, mantenere l’italiana e riavere il passaporto libico». 
Parlavate in inglese o in arabo? 
«Arabo, arabo». 
Eravate in sei. Come siete stati trattati? 
«Con il grado più alto di cordialità. Ci hanno accolto come se fossimo capi della Farnesina. Sei macchine. Albergo pagato. Il cerimoniale non ci ha mai lasciato, dal primo passo fino all’ultimo». 
Chi vi ha ricevuto? 
«Il ministro degli Esteri, Abdul Rahaman Shalgam, in particolare. Prima di ripartire avevano detto che avremmo potuto vedere Gheddafi, ma poi l’ambasciatore in Italia, Abdulati Ibrahim Alobidi, si è scusato: a causa del Ramadam, Gheddafi di giorno non poteva. Saremmo dovuti rimanere più giorni. Però dovevamo partire». 
Quale effetto le ha fatto rivedere la casa che fu costretto a lasciare? 
«Ne fa, di effetto. Anche se ormai di casa io ne ho un’altra, qui in Italia. Non sono salito, ci abita altra gente. Ho visto anche la casa dei miei nonni. In due giorni abbiamo trascorso sei, sette ore al quartiere ebraico. Sono riandato al mercato. Lavoravo lì». 
Avete ritrovato vecchi amici? 
«Molti. Alcuni li ho cercati nei posti nei quali abitavano. "Tizio si è trasferito", mi è stato risposto. Ma nel giro di poco gli è stato fatto sapere che ero in Libia. Più tardi mi hanno raggiunto: "Eccomi qui"». 
Da quanto tempo preparavate questa visita? 
«Da tre anni. Ne parlavamo riservatamente con sua eccellenza Musa Kusa, con l’ambasciatore Alobidi e con quello presso la Santa Sede Abdulhafed Gaddur. Nei primi due anni ci siamo visti sei volte. Dal gennaio scorso a oggi, venti: il rapporto è diventato ufficiale». 
Lo sa qual è il ruolo di Kusa? 
«Ufficialmente non lo so. Ma è una delle massime personalità». 
E’ diventato diplomatico, l’ex importatore di spezie. Ha l’aria di chi non vuole rompere un incantesimo. Sorvola sul fatto che le sue valigie, per un errore, non siano state imbarcate sull’aereo per Roma. Questa volta, riavrà ciò che possedeva.

PERSECUZIONI L’ostilità di Tripoli verso i libici di origine ebraica si intensificò nel 1967. Seimila persone dovettero lasciare il Paese e cercarono rifugio in Italia NEGOZIATI Tre anni per preparare la visita in Libia 
della delegazione ebraica. Protagonisti, il capo dei Servizi e gli ambasciatori in Italia e quello presso la Santa Sede

 

 

 

 

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