Italia-Libia, la grande partita con il muro dell'embargo

di Maurizio Caprara

Del 28 giugno 2003 da Corriere della Sera

ROMA - Il moschetto. Per capire che cosa ha evocato a Tripoli, prima della rettifica, l'annuncio di Silvio Berlusconi sui "soldati" italiani che avrebbero dovuto controllare i porti della Libia bisogna tener presente il regalo che Muhammar El Gheddafi ha consegnato, con metodica puntualità, agli ultimi due presidenti del Consiglio italiani ricevuti sotto la sua tenda da beduino. Sia a Massimo D'Alema, nel 1999, sia al Cavaliere, il 28 ottobre scorso, il Colonnello ha regalato un moschetto di quelli impiegati dalle truppe italiane in era coloniale. Un gesto agrodolce, alla fine di incontri contrassegnati da reciproci attestati di amicizia e di stima. Un modo per dire: va bene, d'accordo, ma adesso riportatevi a casa le armi con le quali ci aggredì il vostro Paese.
Abituato a mostrare agli ospiti la cicatrice dovuta a una mina, a suo avviso italiana, che lo ferì quando aveva più o menò sèi. anni d'età, con il suo misto di nazionalismo estremo e indole ribelle Gheddafi dimostra quanto è difficile superare il Novecento anche nell'epoca della globalizzazione. Le disponibilità che gli sono state attribuite non si sono rivelate sempre effettive.
Sono stati regolarmente seguiti da fasi stagnanti, negli ultimi anni, i miglioramenti nei rapporti tra l'Italia e la Libia. Nel 1998 fu firmato un comunicato congiunto su come "superare il passato" che non ha ancora dato i frutti sperati. Il giorno dopo la sospensione delle sanzioni decise dall'Onu per la strage di Lockerbie - 270 morti su un volo Pan Am - Lamberto Dini m 1999 fu il primo ministro degli Esteri dell'Occidente a presentarsi nella "Gran Jamahiria araba libica popolare e socialista". Sorrisi, trattamento d'onore, sensazioni di inizio di un nuova epoca. Eppure l'attesa da thrilling che in questi giorni riguarda memorandum di intesa preparato di ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu per bloccare l'arrivo di immigrati dalle coste libiche dimostra quanto schiarite non abbiano prodotto risultati automatici. Quell'intesa priva al ' momento di firme è stata preparata dal prefetto Alessandro Pausa ira una missione di un paio di mesi fa e al Viminale ci si fatica sopra tuttora.
Sugli interventi che dovrebbero aiutare il Colonnello a mettersi alle spalle il ricordo dell'occupazione italiana durata dal 1912 al 1942 c'è un lavorio che assomiglia alla fabbrica di San Pietro. In ottobre i libici volevano dall'Italia, oltre al finanziamento di strutture sanitarie e ai sostegni per curare i feriti delle mine, la costruzione di un'autostrada. Si rispose che era preferibile una meno impegnativa strada costiera. Al ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi è stato chiesto dai libici di aspettare
per concordare il progetto. A differenza di quanto annunciato, i credili delle aziende italiane che dopo la visita di Berlusconi dovevano essere restituiti sono rimasti inevasi. Si tratta di oltre 887 milioni di euro. Alcuni risalgono agli anni Settanta. Ci sono ragioni che vanno al di là delle cronache di questi giorni sull'immigrazione a motivare la pazienza dell'Italia verso la Libia. E della Libia verso l'Italia. La richiesta della Farnesina di una deroga all'embargo europeo che vieta di fornire al Colonnello i mezzi suscettibili di uso anche bellico per controllare i flussi di disperati - visori notturni, motovedette veloci, equipaggiamenti vari, i libici chiedono poi nuovi elicotteri - trova finora poco appoggio tra gli altri 14 Stati dell'Unione europea perché rientra in una partita a scacchi di dimensioni semiplanetarie. Il nostro Paese ha interesse ad acquisire agli occhi di Tripoli il titolo di merito di aver aperto un varco nell'embargo, e in prospettiva punta a farlo eliminare. La Libia, per raggiungere questo traguardo, riavvia le gare internazionali per le opere pubbliche con lo scopo di ammorbidire l'Ue.
Come noi, i nostri alleati pensano agli affari loro e non concedono appoggi senza contropartite. Mentre il ministro degli Esteri Franco Frattini cerca risposte rapide da contrapporre alle notizie degli sbarchi di disperaci in Sicilia sui quali protesta la Lega, il commissario alle Relazioni esterne Chris Patten dichiara che la missione della Commissione incaricata di valutare se e quali prodotti dal doppio uso, militare e civile, potrebbero essere venduti a Tripoli sarà portata a termine "entro l'estate". Senza fretta. E se tutto va bene.
Negli Stati Uniti forse l'opinione pubblica non è pronta ad accettare una fine delle sanzioni, ma un gruppo [di pressione che ha i suoi pilastri nelle compagnie, petrolifere Occidental e Marathon, riunite nel consorzio Oasis, si dà da fare per allentare l'embargo americano e lo fa tentando di far percepire alla classe dirigente il valore delle azioni di Gheddafi contro il terrorismo fondamentalista islamico. Come usa ricordare Giulio Andreotti, la Libia è stata uno dei primi Stati, se non il primo, a emettere un ordine di cattura contro Osama Bin Laden. Un argomento efficace per contrastare i divieti a scambi con Tripoli. Già previste contro l'Iran, nel 1996 le sanzioni furono estese da Washington a Tripoli su proposta del senatore Ted Kennedy, amico dei familiari delle vittime di Lockerbie.
Una delle fortune della Libia deriva dai supergiant, i giacimenti giganti individuati negli anni Sessanta. Occidental e Marathon hanno motivo di desiderare una ulteriore riduzione dell'isolamento libico nei confronti dell'Occidente. Negli anni Settanta, i beni di queste compagnie vennero requisiti, non nazionalizzati del tutto. Perciò le società sperano di riesercitare i loro diritti di proprietà. Nel frattempo, la .Jamahiria ha indetto gare per costruire infrastrutture. Le ditte statunitensi non hanno partecipato. A piazzarsi bene sono stati tedeschi, soprattutto la Siemens nelle telecomunicazioni e spagnoli. Opportunità se ne stanno aggiudicando giapponesi e francesi. Come i britannici, i francesi tentano anche di non lasciare all'Italia, nel 2002 primo partner commerciale dei libici, il ruolo di principale interlocutore del Colonnello in Occidente.
Tenere aperti i canali dialogo, sturare gli intoppi. Questo ha chiesto negli ultimi giorni la Farnesina ad altri ministeri. I Beni culturali sono stati sollecitati a sbloccare l'invio della Venere di Cirene. Sataa del II secolo dopo Cristo portata via alla Libia da gli italiani in era coloniale. Berlusconi voleva regalarla a Gheddafi in ottobre, invece giace da un anno nel museo delle Tenne di Diocleziano. Imballata. "Italia nostra" è ricorsa al Tar. Ma per aggirare l'ostacolo si stanno inventando strade nuove. "Pensiamo alla formula dei "prestiti di beni a lungo termine", da inquadrare in un accordo apposito" spiega Giuseppe Proietti, direttore generale peri Beni archeologici. E c'è un curioso parallelismo tra l'espediente in cantiere per sbloccare la statua e le misure in programma per sorvegliare le coste dalle quali partono i clandestini: per evitare rifiuti da Tripoli, i controlli di pattuglie congiunte potrebbero avvenire sotto forma di esercitazioni.
Nessuno esclude che, anche in questa estate, nel negoziato riprenderà corpo lo spettro del colonialismo italiano.

 

 

 

 

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