Gheddafi: privatizziamo il petrolio

Del 15 giugno 2003 da Il Sole 24 Ore

TRIPOLI - C'era una volta la terza teoria universale del Libro Verde: allora, erano gli anni '70, il colonnello Gheddafi enunciò il suo modello di rivoluzione, orgogliosamente distante sia dal comunismo che dal capitalismo. Adesso con la sua faccia da rockstar invecchiata, ma sempre ispirata, il colonnello proclama che è tutto da rifare. Con un colpo di scena annuncia "che è finito in Libia per il settore pubblico: il modello è fallito ed ha provato perdite per miliardi di dollari all'economia". Al suo posto serve, secondo il Rais libico, una nuova forma di economia privata collettiva. In un discorso al Congresso generale del Popolo dove è stato deciso il siluramento del primo ministro, Gheddafi ha proposto che il settore del petrolio, delle banche ed ogni altro comparto dei servizi pubblici (dagli aeroporti alle strade) divenga proprietà di privati cittadini. "Il petrolio, base della ricchezza della Libia - ha detto - deve diventare proprietà di tutti ed essere diretto da società che non saranno dello Stato ma dei libici, che potranno tuttavia chiamare esperti stranieri per sviluppare ogni settore, dalle prospezioni alle produzioni, passando per la commercializzazione". Il discorso non può passare inosservato all'attenzione delle major petrolifere che operano in Libia ed in particolare all'Eni, la maggiore tra le società straniere, impegnata in vasti progetti nel settore del gas, del petrolio e nella realizzazione della pipeline sottomarina per collegare la Libia alla Sicilia, un'opera stimata 5 milioni di dollari. L'ex colonia rimane uno dei maggiori produttori dell'Opec, 1,3 milioni di barili al giorno, con il 3% delle riserve mondiali, una sorta di pompa di benzina a portata di mano dell'Italia. Dopo l'ondata delle nazionalizzazioni all'indomani del colpo di Stato del '69 che rovesciò la monarchia e la revoca nel '99 dell'embargo dell'Onu, Tripoli quindi potrebbe cambiare clamorosamente rotta per due ragioni fondamentali. La prima è l'ammissione da parte di Gheddafi di un grande fallimento economico e sociale: "Mantenere il settore pubblico trascinerà l'economia al disastro", ha detto il colonnello. La seconda forse è ancora più fondata e sottile: la necessità per la Libia di attirare nuovi importanti investimenti esteri nel settore energetico per contrastare la concorrenza degli altri Paesi produttori che stanno aprendo i loro mercati sia in Africa che in Medio Oriente ed in Asia centrale. Sono passati i tempi in cui Gheddafi, sfidando le multinazionali americane e britanniche, dichiarava che "la Libia aveva fatto a meno del petrolio per cinquemila anni e poteva farne a meno per altri cinquanta". Ancora più lontani appaiono gli anni dove nel Libro Verde si reggeva la sua analisi anticapitalista e marxisteggiante: "il salariato è come uno schiavo del padrone", "moneta e profitto dovrebbero essere abolite", "nessuno deve possedere della casa dove abita". Ma la terza via proposta da Gheddafi si è tradotta in una confusa combinazione tra socialismo e corporativismo che nella pratica ha prodotto con l'autogestione delle fabbriche e delle aziende agricole un crollo della produttività, colpito il commercio e l'attività delle imprese. Sembra di rivedere in miniatura uno scorcio del disastro jugoslavo che con l'autogestione promosse in realtà "la privatizzazione dei profitti e la divisione pubblica delle perdite". Oggi Gheddafi capovolge la rivoluzione del Libro Verde: i libici devono diventare tutti capitalisti. Come non è chiaro. Ma forse il colonnello che ha aumentato la sua offerta di risarcimento alle famiglie delle vittime dell'attentato di Lockerbie in cui furono coinvolti due agenti libici, punta a uscire dalle liste nere occidentali e soprattutto da quella americana. In Libia tutto cambia per non cambiare nulla, Gheddafi ancora una volta annusa l'aria e la sua mossa appare un'intuizione felina degna di un gattopardo delle oasi.

 

 

 

 

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