Somali, marocchini ed etiopi stipati per giorni in un capannone. Centinaia di immigrati in arrivo dalla Libia

di Fellice Cavallaro

Del 22 ottobre 2003 da Corriere della Sera

LAMPEDUSA (Agrigento) - La conferma che in Libia, alla periferia di Tripoli, ci sarebbe una casa-prigione, una vera e propria centrale di smistamento per le carovane dei clandestini nordafricani dirottati poi su vecchi pescherecci può darla anche una bambina impaurita di nove anni, raccontando una verità da sventolare in faccia ai potenti e ai criminali. Una bimba come Asma, la sorellina dei due bimbi gettati in mare due giorni dopo la morte, la piccola naufraga salvata venerdì scorso con i suoi genitori che hanno visto affogare anche una loro terza creatura, vinta e portata via dal mare a dodici anni. E’ stata Asma, al Centro accoglienza di Lampedusa, a parlare di centinaia di somali pronti a salpare dalla Libia, ad accendere i riflettori su una piega di questo dramma biblico aggravato ieri dall’ennesimo naufragio, stavolta nel mare della Tunisia, con 5 morti e 7 dispersi, da nuovi sbarchi e dal ritrovamento di una bagnarola vuota a due passi da Lampedusa, un barcone con pezzi di pane, degli abiti accanto a un motore fuori uso e nessuno più a bordo.
Beffardo, splendeva un sole caldo ieri al Centro. Ed Asma è uscita dalla stanza dei volontari assegnata a quel che è rimasto di questa famigliola. Per giocare con la forza della sua innocenza nel cortile circondato dal filo spinato. Ma, un minuto dopo, il terrore s’è riaffacciato sui suoi occhi grandi e neri. Due manine sul viso. Una corsa verso papà e mamma. Poi, quasi giustificata: «Perché anche i miei genitori erano sicuri che Hasan, Mohamed e Dafiehb fossero morti». Sapeva la piccola Asma che, nella notte fra domenica e lunedì, erano arrivati al Centro altri disperati, 6 dei 15 rimasti in vita nel barcone della morte, ma non li aveva mai visti. Sfiniti e rinsecchiti come gli ebrei di Auschwitz, erano rimasti inchiodati alle flebo. Fino a ieri mattina. Quando tre di loro, appunto Hasan Dari, Mohamed Hosif e Dafiehb Oalim, tutti ventenni, gambe e braccia ridotte a grissini, i bulbi oculari ancora sgranati nel vuoto, hanno provato a muovere i primi passi in quel cortile. Incrociando la piccola.

SIETE VIVI? - «Siete vivi?». La stessa sorpresa di mamma Asha e del papà, Ahmed Osman, che, tranquillizzata la bimba, hanno abbracciato gli sventurati con i quali erano stati rinchiusi nella «centrale» di Tripoli.E di questo ha parlato Asma al ragazzo assunto al Centro come interprete, Karim Joma, un tunisino arrivato da clandestino 14 anni fa, adesso coccolato da carabinieri, fiamme gialle e guardia costiera perché qui è l’unico che capisce l’arabo.
«In quella casa brutta, in quel capannone senza finestre dove c’erano centinaia di persone io giocavo sempre con Hasan, Mohamed e Dafiehb...», ricorda la piccola, scrutando timorosa i tre sopravvissuti. «Ci tenevano tutti lì dentro, senza farci uscire, rimproverando chi faceva domande. Noi ci siamo stati 4 giorni. Altri anche venti, o di più...».

LO SMISTAMENTO AI BARCONI - Siamo alla conferma che gruppi diversi di somali, marocchini, etiopi e così via, radunati in quella «prigione», vengono smistati ai barconi con ordini improvvisi. Come accadde per il gruppo dei tre somali rivisti con sgomento da Asma, tre degli 85 o anche più passeggeri di quel peschereccio partito il 3 ottobre dalla spiaggia libica di Zwara e recuperato domenica sera dalle motovedette italiane con il macabro impasto di 15 vivi e 13 cadaveri perché gli altri, morti di stenti, erano stati buttati via in mare dai loro stessi compagni.
Con quei disperati la piccola Asma, come i genitori e i fratellini, avevano familiarizzato. Molti si conoscevano già a Mogadiscio. Altri avevano promesso di incontrarsi ancora in Italia. A Tripoli si sogna così il futuro. Spesso solo un’illusione, anticipo del disastro. E, dopo la partenza del 3 ottobre, nessuno di quegli 85 o più passeggeri aveva dato notizie. Né in Somalia, né a parenti ed amici in Italia.
«Eravamo certi che non ce l’avessero fatta. E con questa certezza l’11 ottobre arrivò per noi l’ordine di andare», conferma il papà di Asma. «Ma non potevamo immaginare che loro fossero ancora in navigazione quando noi siamo arrivati al Centro senza i nostri compagni, senza i nostri tre bambini...». «Eravate morti, per noi», sussurra Asma. E i tre ragazzi piegano il capo. Poi, Hasan che sembra il più giovane evoca il terrore di quella traversata infernale: «Chi moriva, veniva buttato in mare. Ma infine non avevamo la forza di farlo. Eppure, c’era una lotta per accucciarsi vicino al motore, accanto ai legni della cabina. E vinceva non il più forte, ma chi aveva mangiato per ultimo. Come cani, ci siamo ridotti...». Il tormento di chi s’è visto morire segna qui il giorno dei funerali a 13 bare senza nome, allineate in un cimitero dove non c’è posto, pronte per partire alla volta di Agrigento, ma benedette da una Messa affollata, segnata dalle parole di don Leo contro «questi criminali». Parole di conforto non ne mancano, ma a Palermo nove dei superstiti restano in ospedale, 4 in coma, compresa la donna trovata sotto un cumulo di cadaveri, sempre più grave.
Tragedie che il cinismo dei trafficanti e la disperazione di popoli senza niente ripropongono. Come è accaduto domenica a due passi da Sousse con quel naufragio rivelato ieri da un giornale tunisino e che ha un eroe del quale la cronaca nemmeno ricorda il nome. Un naufrago che è riuscito a riconquistare la costa nuotando per tre miglia, dando l’allarme, salvando così 10 compagni e facendo scattare una retata conclusa con l’arresto di due trafficanti. Ma nonostante tutto dalle stesse spiagge sono continuate le partenze.

TRE BARCHE VERSO PANTELLERIA - E tre barche con 28 clandestini si son viste a due passi da Pantelleria. Con i militari italiani stavolta invitati dal Viminale ad attendere in mare gli extracomunitari. Giusto il tempo di una trattativa con il governo di Ben Alì. E una motovedetta tunisina ha preso in consegna la disperata comitiva che col mare buono stava per approdare nell’isola. Come sono riusciti a fare altri 17 giunti a Lampedusa su una piccola barca, con un motore da 15 cavalli, in 7 ore appena. Tutti tunisini. Stessa nazionalità di tre trafficanti catturati ieri a Sciacca dai carabinieri, impegnati contemporaneamente sulle tracce del fronte libico. Anche facendo leva sulle parole della piccola Asma che sembra aiutare i genitori e i tre amici ritrovati a raccontare dettagli fondamentali: «In quella casa di Tripoli vedevamo arrivare sempre gli stessi camion, le stesse jeep, gli stessi autisti...». E’ una gran chiacchierona Asma, come dice sorridendo mamma Asha. Ma non riesce a smorzare la sua monella, due peluche sempre al petto, dono di un’altra bimba di nove anni non ancora conosciuta: «Me li ha regalati Giulia». E Giulia è la figlia del maresciallo che comanda i carabinieri di Lampedusa. L’altra sera, turbato, il sottufficiale ha parlato in casa di Asma e la sua bimba è corsa a prendere un diario, dei colori e due dei suoi beniamini: «Li porti a lei, papà?». Felice la piccola somala, i pupazzi stretti a sé: «Li chiamerò Ryan e Khalid». Si, i nomi della sorellina di un anno e del fratellino di due che non rivedrà mai più. Ma che disegna sul diario di Giulia, pagina dopo pagina, sempre il mare e tre alberi dritti fra le onde. Tre. Perché nel mare c’è pure Zeinab con l’innocenza di una dodicenne che sognava tutto in quella casa-prigione.

 

 

 

 

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