Dietro le quinte La “diplomazia telefonica” tra il Cavaliere e Gheddafi. Lunedì Mastella a Tripoli

di Maria Latella

Del 20 febbraio 2003 da Corriere della Sera

ROMA — Martedì sera, chiusi nello studio dell'ambasciata d'Italia presso la Santa Sode Berlusconi e il cardinal Sodano confidavano i reciproci sforzi messi in atto per scongiurare la guerra in Iraq. Cosi chiacchierando, qualcuno ha raccontato anche un dettaglio dell'incontro tra Saddam Hussein e l'inviato del Papa a Baghdad, il cardina­le Etchegaray. Pare che, per tutta la durata del colloquio, il dittatore iracheno giocherellasse con un'arma, forse un pugnale. Il cardinale non si è fat­to intimidire: per altrettanto tempo ha rigirato tra le mani il rosario. A ciascuno la sua arma.

Un altro nome, oltre a quello di Saddam, è echeggiato nella stanza che riuniva il potere vaticano e, da Ciampi in giù, le più alte cariche dello Stato italiano: Gheddafi. Torna, Gheddafì, nelle conversazioni e nei contatti italiani ad alto e me­dio livello. Riceve visite: lunedì, per esempio, in­contrerà a Tripoli Clemente Mastella. Riceve tele­fonate: è stato lo stesso Berlusconi a rivelare l'esistenza di un filo "caldo" tra Roma e la Libia. Il primo a riattivare i collegamenti è stato, natu­ralmente, Giulio Andreotti. A quanti sostengono che l'attivismo italiano verso Tripoli potrebbe sconcertare gli americani, il senatore a vita ricorda che, l'11 settembre, il colonnello Gheddafi fu rapidissimo nel solidarizzare con gli Stati Uni­ti. Il rais, dice Andreotti, par­lò di "atto odioso», assicurò «aiuti umanitari, aggiunse che quel giorno sarebbe rima­sto «memorabile, caratteriz­zato da un evento orribile che avrebbe risvegliato la coscienza dell'umanità». Un messaggio "caldo", insomma, in linea con il neo filo-americanismo che qualche giorno pri­ma, il 2 settembre, il ministro degli Esteri libico aveva confidato all'allora numero uno della Farnesina, Renato Ruggiero: “Vogliamo il disgelo con gli Usa. Essere nemici de­gli Stati Uniti non porta benefici”.

Martedì sera, nella ben sigillala stanza dell'ambascia­ta d'Italia presso il Vaticano, il nome di Gheddafi è riaffiorato mentre le parti discutevano l'ipotesi dell'esilio di Saddam Hussein. Un esilio presupporrebbe un salvacondotto, un'immunità; ma chi può davvero pensare che il dittatore iracheno la meriti ? E poi, s'interrogava Berlusconi, quanto varrebbe un'immunità concessa oggi a Saddam se, tra qualche mese, nell'Iraq liberato, saltassero fuori le prove dei crimini com­messi contro l'umanità ? Lo stesso Gheddafi, ha osservato qualcuno dei presenti, si pone queste domande. La verità, ribadiscono sia Mastella in partenza per Tripoli, che Vittorio Sgarbi reduce dalla cena con Tarek Aziz dopo aver a suo tempo cenato, anni fa, sotto la tenda del colonnello libi­co, la verità è che Saddam Hussein in esilio non andrà mai. Lo conferma l'altro profondo conosci­tore dei rapporti italo-arabi, Francesco Cossiga:

«Dopo il colloquio che ho avuto a Roma con Tarek Aziz, escludo assolutamente l'ipotesi di un Saddam Hussein pronto all'esilio» sostiene, il presi­dente emerito, secondo il quale la classe dirigente di Bagdad vive lo stesso drammatico dilemma del regime nazista nelle sue ultime ore. «Gli iracheni non possono concedere nulla, come Hitler nulla poteva concedere». Perché mai scomodare Gheddafi, allora ? «Con la Tunisia, il regime di Gheddafi è certo il meno integralista di quell'area e il colon­nello non ha avuto a che fare con Saddam -  è l'opinione di Cossiga -. Ciò detto, non credo mol­to a una Libia coinvolta nell'esilio di Saddam. Gheddafi potrà svolgere un ruolo, certo, ma nella lotta contro il terrorismo. Se gli Stati Uniti l'aves­sero ascoltato, due anni prima dell'11 settembre, le Torri Gemelle sarebbero ancora al loro posto».

 

 

 

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